15 aprile 2018 - 20:23

La Storia d’Italia di Indro Montanelli
ci parla anche di noi stessi Collana

Parte il 18 aprile la serie sulle vicende del nostro Paese firmata dal grande giornalista L’introduzione scritta da Luciano Fontana per il volume in omaggio con il quotidiano

di LUCIANO FONTANA

Montanelli nel maggio 1940, mentre scrive un articolo seduto su una pila di giornali nel corridoio della direzione del «Corriere» (foto di Fedele Toscani) Montanelli nel maggio 1940, mentre scrive un articolo seduto su una pila di giornali nel corridoio della direzione del «Corriere» (foto di Fedele Toscani)
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«La grande opinione pubblica già si mostrava stanca dei partiti e non seguiva che straccamente i lavori della Costituente, intenta a confezionare la Magna Charta della democrazia italiana e delle sue libertà». Poco più di due righe bastano a Indro Montanelli a descrivere i sentimenti degli italiani che si avviano al voto del 18 aprile 1948. Una data cruciale per L’Italia della Repubblica. Montanelli la racconta a quattro mani con Mario Cervi in un volume che ricostruisce due anni decisivi, dal referendum su «Monarchia o Repubblica» al successo schiacciante della Democrazia cristiana nelle elezioni, appunto, del 1948.

Il «Corriere della Sera» ha deciso di riportare in edicola la loro Storia d’Italia e partiamo proprio dalle pagine dedicate alla nascita di un nuovo mondo, politico, economico e sociale, dopo la liberazione del Paese e la vittoria anglo-americana nella Seconda guerra mondiale.

Abbiamo voluto farlo perché lì sono le radici di tante conquiste, ma anche di molte illusioni sopravvissute fino a oggi. Perché viene raccontata (con una scrittura chiarissima, con ritratti fulminanti, con una capacità di cogliere gli elementi determinanti nel ribollire di eventi e di passioni) la nascita del sistema dei partiti durato fino alla caduta della Prima Repubblica. Con la consapevolezza che dopo la loro morte siamo precipitati in una transizione lunga venticinque anni di cui non vediamo ancora la conclusione. Qualche commentatore, dopo le elezioni del 4 marzo 2018, ha avanzato un parallelo tra il risultato a sorpresa uscito dalle urne e l’affermazione, perlomeno inaspettata nelle dimensioni, della Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi di settant’anni fa. Considerati i protagonisti e i momenti storici, il parallelo è forse azzardato. Ma lo stordimento del Fronte popolare fu certamente pari a quello che ha colto i partiti sconfitti nelle ultime consultazioni politiche. Il comunista Palmiro Togliatti e il socialista Pietro Nenni erano sicuri della vittoria e avevano già iniziato una discussione su chi dovesse diventare primo ministro. E (vi ricorda qualcosa?) si discettava se il capo dello Stato, Enrico De Nicola, fosse obbligato a dare l’incarico di formare il governo al partito più forte numericamente o a chi fosse in grado di ottenere una solida maggioranza.

Dibattiti spazzati via dalla scelta degli italiani, che diedero alla Democrazia cristiana quasi la maggioranza assoluta; in nome di qualcosa che il dibattito ideologico, la presunzione intellettuale di Togliatti, l’irruenza di Nenni non avevano previsto. Quest’ultimo lo ammise con amarezza: «Come mai ci è sfuggito il senso di paura al quale dobbiamo la sconfitta? Siamo dunque così staccati dal Paese da non saperne più controllare i sentimenti e le opinioni?».

La paura, in quei mesi, era di far vincere partiti che avrebbero trasformato l’Italia in una specie di Repubblica popolare dell’Est, dominata dalla potenza di Stalin. Una scelta occidentale di libertà che portò democratici, liberali e anticomunisti a serrare le fila intorno a un leader, Alcide De Gasperi, poco adatto a scaldare le piazze ma certamente serio, onesto e meritevole di fiducia.

In quei due anni nasce anche l’assetto costituzionale che ancora oggi determina la nostra vita politica. Lo stesso che, almeno in parte, è stato al centro della scommessa referendaria che ha determinato la rapida caduta della stella di Matteo Renzi. Dopo il ventennio fascista la principale preoccupazione dei parlamentari costituenti, raccontata da Montanelli come un’ossessione, era di predisporre tutte le condizioni utili a impedire il ritorno della dittatura. Secondo il giornalista, così vengono cancellati tutti i rimedi utili a scongiurare l’instabilità dei governi e la frammentazione del quadro politico: collegi uninominali, soglie di sbarramento per l’accesso al Parlamento, premi di maggioranza, sfiducia costruttiva con l’obbligo di predisporre una nuova maggioranza prima di far cadere quella in carica. Nasce l’Italia del proporzionale che ci accompagnerà fino al 1994. L’Italia dei primi ministri cambiati con il ritmo di uno l’anno, delle maggioranze variabili, della continua ricerca di nuovi equilibri tra i partiti. Un sistema che in qualche modo ha funzionato fino a quando la Democrazia cristiana ha mantenuto una forte capacità di aggregazione.

Poi è arrivata la cosiddetta Seconda Repubblica, con l’illusione di una nuova era politica in cui due schieramenti, progressista e conservatore, si contendevano il governo del Paese. Con il mito di un presidente del Consiglio e di un governo scelti dal popolo nel giorno stesso delle elezioni. Non era così e ce ne siamo resi conto il 4 marzo scorso.

Siamo ancora qui a discutere di instabilità, di alchimie politiche, di leggi elettorali, e a ragionare sull’incapacità di cogliere il vento di protesta che stava soffiando nel Paese. Avremmo ancora bisogno di Montanelli e Cervi per saperlo raccontare con pagine chiare e avvincenti.

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