15 maggio 2018 - 20:28

Montanelli e lo spirito «luterano»
Che guaio i roghi dell’Inquisizione

Senza riforma religiosa il nostro Paese rimase ai margini della modernità
Un bilancio critico della stagione spirituale segnata dal Concilio di Trento
- Tempi di invasioni straniere e guerre sanguinose: la quinta uscita

di SILVIA MOROSI

Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento, un dipinto realizzato tra il 1687 e il 1688 dall’artista veneto Sebastiano Ricci (1659-1734) Papa Paolo III ha la visione del Concilio di Trento, un dipinto realizzato tra il 1687 e il 1688 dall’artista veneto Sebastiano Ricci (1659-1734)
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«Chi ti dice che sei un semidio e che puoi fare tutto quello che vuoi è una sirena che ti trae in inganno, mio caro Leone...». Bastano poche, sferzanti, battute della lettera scritta da Martin Lutero a papa Leone X per raccontare lo scontro che per tutto il Cinquecento, e oltre, contrappose la Chiesa di Roma a quanti ne criticavano corruzione, mondanità, vendita di indulgenze per fare cassa, eccessivo e superstizioso ricorso ai santi, concubinato. Come ricordano Indro Montanelli e Roberto Gervaso ne L’Italia della Controriforma, da oggi in edicola con il «Corriere», era la stessa Curia ad avvertire la necessità — ma non l’urgenza — di una «riforma delle membra».

Indro Montanelli all’epoca in cui era inviato del «Corriere»
Indro Montanelli all’epoca in cui era inviato del «Corriere»

La questione divenne urgente e spinosa con il dilagare della polemica protestante, cui il monaco agostiniano diede nome e dottrina. Cresciuto con un carattere difficile (sin da piccolo aveva conosciuto il sapore della frusta, ogni volta che trasgrediva gli ordini dei genitori) e temuto da molti per il suo rigore morale, Lutero cercò di riavvicinare le persone all’essenza della fede, Dio. Tradusse la Bibbia in tedesco, creando quasi dal nulla uno spirito nazionale germanico e criticando l’universalismo medievale del papato. Dopo un viaggio a Roma, non esitò a bollare il Pontefice come l’Anticristo, «peggiore di qualsiasi Turco», e la città santa come «nuova Babilonia», articolando la condanna nelle 95 tesi affisse nel 1517 al portale di una chiesa a Wittenberg. Puntuale arrivò la scomunica.

Chissà cosa avrebbero pensato i suoi nemici — ironizza Montanelli — se avessero conosciuto il lato più umano di Lutero: chiamava la moglie Katharine «mio signor Katie», perché era lei che in casa portava i pantaloni; non si fece sfuggire i piaceri del bere e «minacciò» Dio di non riconoscerne più l’onnipotenza se non avesse lenito i dolori renali che lo affliggevano. Ma il suo agire pubblico non conosceva debolezze. Non esitò nemmeno a rispondere a Carlo V — sia pure dopo un attimo di silenzio definito dallo storico Thomas Carlyle «il più significativo del mondo moderno» — che non accettava «nessuna autorità, nemmeno quella di Papi e Concili». L’imperatore del Sacro Romano Impero, che si riteneva primo difensore della Chiesa cattolica e sperava di avere il Papa come alleato nella sua politica di egemonia europea, si rese ben presto conto della inaffidabilità della Curia romana su quel terreno. Tanto da dirsi pronto a «scendere in Italia e farla pagare a tutti, specialmente a quel cialtrone del Papa».

Solo la firma della pace di Augusta del 1555 pose fine alle trentennali guerre di religione, mettendo nero su bianco i termini della sfida che i cattolici stavano perdendo: seguendo il principio del cuius regio, eius religio, i prìncipi erano liberi di abbracciare la confessione preferita, vincolando alla loro scelta i sudditi. Il messaggio di Lutero aveva varcato i confini della Germania e i temi anticattolici protestanti si erano diffusi in tutta Europa, assumendo diverse connotazioni: calvinismo, anglicanesimo, zwinglismo e altri. Da noi la Riforma non «sfondò», nonostante le precedenti denunce di Girolamo Savonarola, il «Lutero italiano», e di Niccolò Machiavelli, contro la corruzione del clero. Serviva ritrovare il contatto con Dio perché, osserva Montanelli tracciando un ritratto dei grandi intellettuali del Rinascimento, da Mantegna a Leonardo, non serviva solo un’opera di intelligenza, ma un’idea che rigenerasse la Chiesa da dentro, senza distruggerla.

Un tentativo venne fatto con il Concilio di Trento (1545-1563), che avrebbe dovuto mettere fine alla frattura tra cattolici e protestanti, ma portò a una serie di rigide affermazioni con cui si sconfessò Lutero e si diede vita a organismi di controllo sulle dottrine eretiche come il Sant’Uffizio.

Il volume si chiude con il rogo di Giordano Bruno, che «illumina di una luce più pertinente lo squallido paesaggio dell’Italia della Controriforma». Fiamme che indignano e rattristano Montanelli: riecheggiando il pensiero dei sociologi tedeschi Max Weber e Werner Sombart, egli individua nella mancata Riforma italiana l’origine di vizi e tratti autoritari che spiegano secoli di arretratezza civile e perfino la perenne tentazione di affidarsi a un uomo forte e infine al fascismo: «Per loro la storia moderna comincia con la Riforma. Io percorro questa intuizione in senso inverso: non avendo noi avuto la Riforma, abbiamo perso il treno della civiltà moderna».

Nel libro si coglie l’adesione intellettuale di Montanelli al protestantesimo, pur da non credente. Eppure fu il primo giornalista a cui un Pontefice, Giovanni XXIII, concesse nel 1959 un colloquio per scriverne sul «Corriere» il resoconto: «Quel Papa l’ho molto amato e mi ha fatto ancora più sentire cosa mi manca, mancandomi la fede».

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