17 aprile 2018 - 20:03

La madeleine avvelenata di «It»

Il clown creato da Stephen King è uno dei personaggi che incarnano il fascino
della malvagità. Su «la Lettura» in edicola altri cinque esempi di cattivi nella fiction, l’analisi di Aldo Grasso e la vicenda di un vero criminale accusato di 34 delitti

di CRISTINA TAGLIETTI

Un’immagine del film «It», l’horror di Andrés Muschietti del 2017 tratto dal romanzo di Stephen King Un’immagine del film «It», l’horror di Andrés Muschietti del 2017 tratto dal romanzo di Stephen King
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A volte escono da Wall Street come il Patrick Bateman di Bret Easton Ellis (American Psycho), a volte dalle viscere della città, come il clown Pennywise. «Che si tratti di fantasmi, di vampiri o di criminali di guerra nazisti che vivono nell’isolato accanto, stiamo sempre parlando della stessa cosa: l’intrusione dello straordinario nella vita ordinaria», ha detto Stephen King in un’intervista alla «Paris Review» facendo piazza pulita delle distinzioni dei generi. Per lo scrittore il male in letteratura a questo serve: a rivelare qualcosa di noi, del nostro modo di interagire con gli altri, di essere individui e allo stesso tempo comunità.

Se c’è un personaggio che da oltre trent’anni incarna il fascino del male, il mostro capace di incrociare tutte le nostre ossessioni, quello è It, il cattivo più infame della vasta produzione dello scrittore americano, forse il più completo dell’immaginario contemporaneo. I trent’anni compiuti nel 2016 hanno portato nuovi lettori a quello che ormai è considerato un classico, tanto che in occasione del nuovo film diretto da Andrés Muschietti, l’editore italiano Sperling & Kupfer ha mandato in libreria la scorsa estate una nuova edizione che ha già venduto 100 mila copie.

It è il male cosmico, eterno, ma è anche il male quotidiano che letteralmente mangia i bambini, lasciando sgomenti padri alcolisti, madri nevrotiche, coetanei sadici, una società inetta che il male sembra comunque averlo dentro.

Mostro eterno, serial killer della porta accanto, predatore nascosto dietro le sembianze dell’intrattenitore con i palloncini in mano (il clown appunto), It ha la potenza simbolica (anche se di tutt’altro segno) di un altro grande «cattivo» della letteratura: Moby Dick, la balena bianca, ossessione del capitano Achab.

Il clown Pennywise è una sola delle possibili sembianze che It può assumere, perché in realtà è il male su misura per ciascuno, è esattamente ciò di cui tu hai paura. Mostro che arriva dalle stelle ma vive nelle fogne, chiede soltanto di essere creduto e di venire, in qualche modo, ricordato. Si risveglia ogni 27 anni, esce dal sottosuolo per nutrirsi di bambini, per poi ritirarsi di nuovo. Così i sette ragazzini del Club dei perdenti che l’hanno affrontato la prima volta nel 1957 (tra loro c’è il balbuziente, l’asmatico, l’obeso, il nero, l’ebreo, la bambina abusata) sono costretti a tornare, ormai adulti, e ricominciare la lotta.

King non distingue tra la trascendenza del più lovecraftiano dei suoi mostri e i grandi mali — bullismo, pedofilia, omofobia — che affliggono anche la piccola città (inventata) di Derry, nel Maine (vero) e, quindi, la società tutta. «Potresti giungere alla conclusione di esserti imbattuto nel peggiore dei segreti di Derry... ma ne resta sempre un altro da scoprire. E un altro. E un altro ancora». King ha quella capacità sublime e dolorosa, di raccontare l’infanzia come un luogo dove voler tornare sempre. Con grazia ci porge la sua madeleine avvelenata facendoci credere che basterebbe tornare bambini per affrontare, e forse sconfiggere, il male.

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