12 ottobre 2018 - 01:03

Prigionieri delle parole negative. E se a liberarci bastasse un’utopia?

«Immigati», «Popolo sovrano», «Sicurezza»... Wittgenstein sottolineava il «senso di reclusione che si crea quando alcune parole si impossessano del nostro discorso»: per sfuggire a questa gabbia occorre pensare a giustizia sociale, pace, equità

di Roberto Mordacci

Prigionieri delle parole negative. E se a liberarci bastasse un’utopia?
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«Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente». Così scriveva Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche (1953), dando voce al senso di reclusione che si crea quando alcune parole si impossessano del nostro discorso, in particolare quello pubblico. «Popolo», «banche», «sovrano», «sicurezza», «immigrato»: il semplice accostamento ossessivo di questi termini, la loro infinita ripetizione e l’incapacità della comunicazione politica di trovarne altri stanno incatenando la nostra capacità di leggere la realtà, di affrontare i problemi sociali ed economici.

L’aggressività della narrazione e le paure in parte fittizie

Con una spietata manovra linguistica, la retorica «del cambiamento» ha generato un’immagine feroce, una narrazione in cui l’aggressività è la risposta a paure in parte reali in parte fittizie, dominate dall’opposizione radicale fra «noi» (il popolo, gli italiani, i nuovi) e «loro» (i poteri forti, gli stranieri, chi c’era prima). È del tutto evidente che si tratta di una prigionia, che da questa immagine sono implicitamente bandite proprio parole come libertà, diritti, eguaglianza, solidarietà. Dentro a questa gabbia linguistica diviene impossibile pensare un futuro che non sia di conflitto, guerra, scontro di Paesi e di civiltà.

L’Europa imprigionata nell’odio da una gabbia linguistica

La prima vittima di questo imprigionamento nell’odio è l’Europa, già così spesso prigioniera del proprio odio in passato e avviata da questo linguaggio verso un ritorno di catastrofi che si sentono arrivare. E che sarebbero evitabili, se solo ci liberassimo da questa immagine, che si è insediata nelle menti e che ha una sola direzione possibile: il disfacimento e la rabbia. Per rompere l’immagine occorre un’altra immagine, un altro linguaggio, ma che sia liberante. Occorre un pensiero utopico: non una teoria o un’ideologia, ma proprio la proiezione in un altro luogo, in un mondo che ancora non c’è. Non è facile immaginarlo, ma sappiamo che cosa vorremmo che contenesse: giustizia sociale, relazioni pacifiche, equo benessere e, soprattutto, la fine dell’odio. L’utopia è l’orizzonte di civiltà, che potremmo non raggiungere solo perché siamo prigionieri di un’immagine.

* Roberto Mordacci è fra i fondatori della Facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Vi insegna Filosofia morale e Filosofia della storia

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