27 settembre 2018 - 13:33

Nelle baraccopoli 1 milione di turisti: risorsa o voyeurismo della povertà?

Cifre record per i tour organizzati negli slum: ci sono viaggiatori che non perdono un’area degradata, da Mumbai a Johannesburg. E si discute sull’etica di queste «gite»

di Luca Zanini

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Il caso della «Comuna 13», che Valeria Palumbo racconta in un affascinante reportage per LiberiTutti segnala uno dei rari esempi positivi di innesto dell’industria dei viaggi nel tessuto sociale delle masse povere nei Paesi del Terzo Mondo come in quelli industrializzati più ricchi. Ma ormai il cosiddetto «turismo delle favelas», quello che porta i viaggiatori a spingersi nelle aree più degradate della megalopoli, è diventato un’industria, toccando la ragguardevole cifra di un milione di visitatori di slum e baraccopoli ogni anno. Lo scriveva già lo scorso gennaio il sito di giornalisti specializzati Asian Correspondent, che si chiedeva: il turismo negli slum è una spinta allo sviluppo oppure è «poverty porn»? Ovvero: si tratta di un aiuto o di semplice voyeurismo della povertà, quello che i britannici hanno ribattezzato «poorism»? Una domanda ancora aperta e un dibattito che già sei anni fa aveva affrontato anche ilCorriere, a proposito del turismo (pericolosissimo) nelle favelas brasiliane.

L’India di Pasolini e l’East End dell’800

A chi frequenta l’India da quarant’anni può essere accaduto, negli Anni ‘80, di venire guidato da amici locali a visitare di persona i sobborghi più poveri: per avere un’idea di che cosa significava la povertà nel grande Paese. Ne ha scritto anche Pasolini in L’odore dell’India. Ma adesso — in India come in Indonesia o nelle baraccopoli sudafricana — quel genere di tour istruttivo sembra essere diventato davvero un tipo di turismo organizzato. Secondo Asian Correspondent, è difficile stabilire se un itinerario di viaggio tra i diseredati può davvero rimanere un’attività etica o rischia di scadere nel poorism. E il sito sottolinea: «L’idea del “turismo delle baraccopoli” non è nuova. Risale fino alla fine del 1800, quando i ricchi londinesi si recavano all’East End per osservare le classi meno abbienti». Oggi però sarebbero «oltre un milione i turisti che ogni anno entrano negli slum di tutto il mondo», da Delhi e Mumbai a Rio, da Manila a Johannesburg.

Paternalismo e deviazioni offensive

Il dilemma continua a dividere viaggiatori e operatori turistici. C’è chi accusa i tour operator più legati alla cooperazione e alla solidarietà internazionale di avere «atteggiamenti paternalistici», ma c’è anche chi giustifica lo sforzo di cambiare strada «per conoscere realtà più povere e avere un’immagine più completa di un Paese», spiega Ko Koens, dell’Università di Scienze applicate di Breda. «Si tratta di turisti che credono fermamente le aree povere di un Paese non dovrebbero essere ignorate solo perché non si adattano all’estetica di ciò che il turismo dovrebbe essere». Ma è anche vero che c’è un turismo distorto: quello di chi «trova eccitante il pericolo» (vero o presunto) che si prova nel visitare una baraccopoli. Una scelta offensiva, come già nel 2010 sottolineò un editoriale del New York Times, raccontando del turismo nelle baraccopoli del Kenya.

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