10 gennaio 2019 - 23:40

Diaco: il bello di svegliarsi alle 5 per dare il buongiorno agli italiani

50 anni fa, il 7 gennaio 1969, la radio apriva i microfoni agli ascoltatori, con «Chiamate Roma 3131». Il suo ultimo conduttore non ha smesso di rispondere al telefono in diretta e qui racconta che aria tira e i retroscena delle interviste a Salvini, Di Maio e..

di Candida Morvillo

Diaco: il bello di svegliarsi alle 5 per dare il buongiorno agli italiani Pierluigi Diaco
shadow

Cinquant’anni fa, il 7 gennaio 1969, su Rai Radio 2, nasceva Chiamate Roma 3131, il primo programma radiofonico aperto all’intervento in diretta degli ascoltatori. L’aveva ideato Luciano Rispoli, non c’era Internet né i social, era la prima volta che la gente comune poteva dire la sua su un mezzo di comunicazione di massa, in una trasmissione con punte di dieci milioni di ascoltatori. L’ultimo conduttore di quella che nel frattempo era diventata 3131 è stato, dal 2001 al 2006, Pierluigi Diaco, che ora ha 41 anni e, alle spalle, ha 27 anni di radio. Dal lunedì alla giovedì, su Rtl 102.5, con Fulvio Giuliani e Giusi Legrenzi, conduce Non stop news, dalle 6 alle 9, la storica fascia oraria di 3131 e, oggi, come allora, dà voce agli ascoltatori, sente l’aria che tira nel Paese. «Quando Sergio Valzania mi chiese di riprendere in mano quel marchio, ero poco più che ventenne, lo considerai un onore ma forse non avevo la consapevolezza e la maturità di capire cosa mi era stato affidato», racconta Diaco a Liberi Tutti.

In che modo Chiamate Roma 3131 ha cambiato la radio?

«Ha cambiato il linguaggio del mezzo e ha avviato un processo di partecipazione oggi esploso con i social. In tv, non si poteva chiamare se non per partecipare ai quiz, lì invece si poteva intervenire sulla manovra finanziaria, sull’attualità. Ancora oggi, in radio, in programmi come il nostro, il dialogo col pubblico è costante, ed è qualcosa che la tv non ha mai conquistato: coi vox populi c’è sempre il montaggio. In radio, in diretta, no, non c’è censura, si segue il rullo di telefonate e di WhatsApp e Sms, che noi mandiamo anche in tv, essendo pure sui canali 36 del Digitale Terrestre e 750 di Sky».

Nei suoi tanti anni di radio, che evoluzione ha visto ne gli interventi degli ascoltatori?

«Prima, si chiamava per fare una domanda a Gianfranco Fini o Walter Veltroni. L’atteggiamento poteva essere provocatorio, ma la domanda c’era. Ora, le persone chiamano e si danno le risposte da soli. Vogliono dire la loro e pure contraddire l’ospite in studio. La rivoluzione di Internet ha contagiato la radio, si è perso il riguardo verso chi ne sa di più».

Quando è accaduto, secondo lei, questo passaggio?

«Negli anni ‘90 con la Lega Nord. I suoi militanti, nel chiamare, avevano meno sudditanza psicologica nei confronti dei politici. Negli ultimi anni, poi, lo spartiacque è stato in parte il renzismo, poi la Lega diventata partito nazionale e, ovviamente, l’arrivo dei 5 stelle».

Quando ha sentito arrivare l’aggressività e la rabbia?

«Da almeno cinque anni. Sono cominciate sui temi della sanità pubblica e della scuola. Abbiamo ospitato gli interventi di tantissimi genitori preoccupati della manutenzione degli edifici scolastici. Prima ancora, nel 2007, con l’uscita de La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo: quel libro ha contribuito moltissimo a legittimare le persone a protestare pubblicamente».

Alcuni ascoltatori, come quelli de La Zanzara di Giuseppe Cruciani, su Radio24, protestano con violenza e volgarità. I suoi sembrano civili, informati. È come se a parlare fossero due Italie. Com’è possibile?

«La radio è come il locale pubblico o il salotto di casa: a seconda di chi ospita, avviene una selezione naturale di clienti e invitati. Il tono e il vocabolario contagiano il pubblico che, se chiama, rispetta liturgia della trasmissione».

Lei non è uno da parolacce.

«Ci tengo a fare una radio educata, gentile e anche armonica dal punto di vista del suono. Il sound educato di una trasmissione regala anche autorevolezza. Si può fare provocazione in maniera gentile. Io sento la responsabilità di parlare a tanti e so che faccio lavoro più bello del mondo. Da 27 anni, sono alla radio sempre, esclusa una settimana a Natale e due ad agosto. Svegliarmi alle 5 dando il buongiorno a chi mi ascolta e darlo a un pubblico molto largo, è straordinario».

Che intende per «pubblico largo»?

«Alle sei del mattino, c’è chi fa colazione o è già in tangenziale per arrivare al lavoro. Alle 7 c’è chi sta staccando dal servizio di notte. Alle 8, ci ascoltano dai bar dai negozi di alimentari. Qualsiasi appello viene colto, soprattutto se lo fai con partecipazione emotiva e io ci metto molta emotività. Negli ultimi giorni di vita di Giovanni Paolo II, chiesi alle mamme e ai papà di far parlare i figli del papa. Era un azzardo, non pensavo che chiamassero. Invece, fu un flusso di emozioni. L’agenzia Ansa mise il resoconto delle telefonate in home page».

Radiofonicamente parlando, esiste un popolo dell’alba, del pomeriggio... della notte?

«Io ho fatto tutte le fasce orarie, dal pomeriggio su Raido Rai con La Cantina a quelli di notte come Il Pittore, con Ivano Fossati e Il maglione marrone con Niccolò Fabi. Ho fatto Onorevole Deejay dalle 19 alle 21… A Rtl, ho fatto anche da mezzanotte alle tre, quando hai quelli che viaggiano, quelli usciti dai locali, gli insonni. Quella di adesso è la mia fascia preferita: a 41 anni, svegliarsi alle 5 è bello, non facendo più la vita rock and roll, andando a letto presto, andare in onda al mattino assomiglia di più alla mia esistenza, si concilia con gli altri impegni. E il popolo del mattino ha voglia di ascoltare, informarsi farsi un’idea. A quell’ora, si capisce il carattere di un Paese, puoi stare su tutto: sul terremoto, sulla finanziaria, sul rapporto fra uomini e donne e hai eterogeneità di opinioni».

Chiamate Roma 3131 fu condotto anche da Gianni Boncompagni, che fu suo grande amico. Che le ha insegnato della radio?

«Mi ha sempre detto una cosa sulle interviste che ricordo sempre: di non preparare troppe domande e seguire, invece, l’onda della diretta. Di non partire da un tesi, ma di ascoltare le risposte e partire da lì per la domanda successiva».

Lei intervista molti politici. Come se la cavano «on air» i nuovi potenti?

«Matteo Salvini non vuole sapere le domande prima. Legge tutti gli Sms degli ascoltatori e li vuole stampati quando va via. Ha una capacità straordinaria di dialogare. Vorrebbe rispondere a tutti, ma siccome vede i messaggi arrivare, preso dalla foga di rispondere a quelli, è difficile fare spazio alle telefonate».

Luigi Di Maio?

«Ha tempi più dilatati. Per spiegare, non lavora su concetti, ma su ragionamenti. Da vicepremier, è venuto una decina di volte. Ama la radio, fa molte domande, s’informa sui dischi in uscita».

I politici potenziali speaker radiofonici?

«Mara Carfagna e Giorgi Meloni sono le più brave dal punto di vista della tecnica. Sanno discutere anche di temi leggeri, fare una battuta, essere non troppo istituzionali».

Se le primarie del Pd fossero radiofoniche chi le vincerebbe?

«Detto che al Pd servirebbe un ponte radio interno per parlarsi, Renzi ha svelato alla radio prima che in tv le sue doti da conduttore, ma anche Nicola Zingaretti è bravo, fra i due non so chi è il migliore».

Silvio Berlusconi?

«Da me, ha lanciato Vita spericolata di Vasco Rossi. Prese l’intro senza countdown: un professionista assoluto».

Il rapporto Censis su Radio e Tv del 2018 riconosce alla radio il primato di credibilità rispetto alla fake news. Come se lo spiega?

«In modo semplice: chi fa radio in diretta non ha tempo di seguire quello che gira minuto per minuto, dice le cose con cognizione di causa. È lì tutti i giorni e sa che, se sbaglia, l’ascoltatore non si fida più».

Dal suo osservatorio mattutino che aria sente tirare in Italia?

«Sento segnali positivi. Il tempo della rabbia sta lasciando spazio al tempo della costruzione. Sento che gran parte degli ascoltatori, elettori o no del governo, hanno l’atteggiamento di “stare a guardare”. In effetti, per me, dopo tanti anni di psicanalisi, la radio è come un esercizio di analisi collettiva. Vale anche il contrario: la radio è diventata il mio strumento di analisi, perché in quelle tre ore dimentico tutto. Il confronto con gli altri, sentire le storie degli altri, mi fa sentire parte di una comunità. Ho scoperto cos’è la coralità. Ho capito, grazie alla radio, che, se ci sono più gli altri e meno te, stai bene».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT