25 agosto 2018 - 22:40

Chi può frenare Salvini (ma lascia campo libero)

Gli alleati del M5S non pongono limiti. E i ministri di Trasporti, Difesa e Giustizia cedono spazio

di Luigi Ferrarella

Il leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini (Ansa) Il leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini (Ansa)
shadow

Il Consiglio dei ministri sostituito da un solo politico che su Facebook ne sequestra le determinazioni, persone private della libertà senza base legale e soltanto su imposizione di un vicepremier anche ai suoi gregari alleati, e «strappi» istituzionali continuamente allargati a forza di scavalcare il premier, sbeffeggiare il presidente della Camera, sfidare il capo dello Stato, minacciare i magistrati, insultare gli avversari: il problema ormai non è più Matteo Salvini, è chi non tira una riga sotto le ribalderie del ministro dell’Interno. E anzi poco manca che cortesemente gli chieda pure il permesso di «almeno» respirare dopo averlo in questi giorni già sommessamente pregato di far sbarcare dalla nave Diciotti «almeno» i minorenni e i malati, cautamente invitato a fare altrettanto «almeno» con le donne violentate nei centri libici e con gli eritrei palesi profughi di guerra, e possibilmente invitato «almeno» a considerare le persone come tali anziché come strumenti di pressione sull’Europa inadempiente e egoista.

A non arrestare lo slabbramento delle regole lungo progressivi slittamenti è questa illusione della «riduzione del danno»: praticata molto per quieto vivere di fronte al carro dei vincitori, e un po’ per succube timore di un boomerang che accresca i consensi al preventivo vittimismo del Viminale, ieri non a caso passato a incassare la cambiale «immigrato uguale stupratore» servitagli dal senegalese non espulso per precedenti reati e ora arrestato per violenza su una 15enne. Già all’epoca di Berlusconi e Renzi l’abuso di decreti legge, la forzatura dei voti di fiducia, e il trucco in Consiglio dei ministri dell’«approvazione salvo intese» di provvedimenti dai contenuti non ancora davvero riempiti, avevano spostato surrettiziamente il baricentro dal Parlamento al governo. Processo portato a estreme conseguenze ora che decisioni cruciali per gli interessi nazionali, oltre a maturare fuori dal Parlamento, vengono portate neanche più per finta nel Consiglio dei ministri, ma unilateralmente proclamate via social da un vicepremier.

Non c’è più Consiglio dei ministri, e neanche ci sono più ministri. I titolari di Trasporti e Difesa non ritengono di prendere nitide difese dei propri militari. Il ministro della Giustizia tace sul deputato leghista che ai magistrati che dovessero «toccare il Capitano» promette di «venirli a prendere sotto casa». L’altro vicepremier Di Maio, capo del Movimento 5 stelle in teoria azionista di maggioranza del «contratto» con quasi il doppio dei voti, è ormai talmente immerso nel quotidiano termometro elettorale con Salvini da preferire andargli a ruota, anziché difendere dalla sua irrisione il compagno di partito Fico presidente della Camera. E il premier Conte, che ama ritagliarsi il ruolo di artefice della sintesi fra i vari ministri, con la propria assenza forse ne sintetizza l’afasia.

Ha faticato a tirare una riga di garanzia persino la magistratura, dove sono «desaparecidos» quei pm in precedenza iper attivisti nel fiancheggiare, con esternazioni prive di prove in fascicoli infine archiviati, la campagna di discredito delle Ong. È toccato ad altri subentrare nell’avvio di prudenti istruttorie, pur a tratti titubanti a far cessare il protrarsi di un «reato permanente» sino alla resa serale del ministro, e preoccupati di doversi quasi giustificare di fronte all’opinione pubblica per la propria doverosa «intromissione» a bordo della nave e (ieri con l’iscrizione di Salvini nel registro degli indagati) negli uffici del Viminale.

Ultimo a poter dare lezioni è peraltro il rumore di fondo di una fetta del mondo dell’informazione. Immemore che una parte della condanna inflitta nel dicembre 2016 all’Italia dalla Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani nel «caso Khlaifia» riguardasse non solo le espulsioni di tunisini da Lampedusa nel 2011, ma proprio anche il trattenimento dei migranti per nove giorni a bordo di navi militari italiane al largo di Palermo. E abituatosi a presentare come ormai accettabile routine gli «strappi» di Salvini fino a rammendarne in realtà la digeribilità sociale, tra la «pacchia finita» per chi respira gasolio sui gommoni che affondano, le «crociere» di chi affoga, i «palestrati» pelle e ossa scampati alle vere palestre di tortura dei campi libici, e le «semplici bravate» di chi dal balcone si esercita nel tiro al nero di passaggio.

Solo dalle parti della Chiesa, pur di fronte alla contraerea demoscopica che vorrebbe i fedeli più devoti al «pontefice» Matteo che a papa Francesco, sembra esserci chi tira le righe. Senza farsi tanto condizionare dai sondaggi istantanei, forse perché allenato già da duemila anni a perdere quello con il Barabba di turno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT