10 aprile 2018 - 21:17

Il dovere di fare un governo

Prima o poi i nuovi dioscuri della politica italiana dovranno scendere da cavallo e dare qualche risposta a Mattarella

di Antonio Polito

Palazzo Chigi, sede del governo italiano (Ansa)
shadow

I pretendenti reclamano il diritto a formare il governo, conquistato per meriti elettorali. Ma esiste nella democrazia parlamentare anche un dovere di far nascere il governo? Probabilmente sì. E la ragione è che assicurare una guida al Paese è un bene in sé: una delle funzioni, e tra le più alte, della politica. Non facciamoci illusioni, che si possa stare comodi e al calduccio senza avere un esecutivo per mesi, se non per anni. Usciamo da uno dei rari momenti di bonaccia internazionale, che ci ha consentito una spensierata campagna elettorale. Ma basterebbe un acuirsi della guerra dei dazi tra Usa e Cina, o l’accendersi in Siria di un conflitto per procura tra le grandi potenze, per farci rimpiangere amaramente di non avere un governo che possa prendere le cruciali decisioni di politica economica ed estera che una tale situazione richiederebbe. Nel mondo ideale, con leggi elettorali efficienti e un sistema politico che renda agevole la scelta tra due schieramenti, il governo del vincitore si avvicinerebbe molto ai suoi desiderata e alle promesse fatte. Ma nel caso italiano questo è palesemente impossibile, perché al vincitore, chiunque esso sia, mancano decine e decine di parlamentari per formare una maggioranza, e dunque deve trovare degli alleati. Quindi si tratta di stabilire se il bene di far nascere un governo rappresenti un interesse generale superiore al bene della coerenza con le proprie impostazioni ideali e programmatiche.

Nel caso di partiti che abbiano fatto il pieno di voti, l’interesse generale potrebbe poi perfino coincidere con l’interesse elettorale, perché si può presumere che tanti italiani li abbiano votati non per appartenenza ideologica, ma proprio per vederli alla prova. In una parola: se la Lega o i Cinque Stelle non riuscissero a fare ciò che hanno promesso agli elettori, e cioè andare al governo e prendere alcune misure popolari, questo insuccesso alla lunga potrebbe indebolirli, quasi fotografando una loro impossibilità a governare, costringendoli così ad accettare un destino di opposizione (e questo vale anche per il Pd, così scioccato dalla botta elettorale da aver finora rinunciato ad avanzare qualsivoglia proposta per la formazione di una maggioranza). Ma per assolvere a questo «dovere di governare», le forze politiche devono imparare ad accettare i compromessi richiesti dai governi di coalizione, composti cioè da partiti diversi. Si possono naturalmente mettere dei paletti, segnalare le colonne d’Ercole della navigazione comune; ma non si può porre molte condizioni irrinunciabili se si sta veramente provando a trovare un’intesa.

Per esempio: Di Maio offre un’alleanza o al Pd o alla Lega. Purché sia lui il primo ministro. E purché i due potenziali alleati si presentino all’incontro con le mani in alto, la Lega senza Berlusconi e il Pd con Renzi nel banco dei cattivi. Due diktat sono troppi. Almeno uno deve cadere, se si vuole riuscire nell’impresa. Allo stesso tempo la Lega, che ha invece rinunciato alla condizione di Salvini premier, mette però un veto a un premier dei Cinque Stelle o a una personalità terza esterna al Parlamento (oltre che ad ogni alleanza con il Pd). Senza dire che entrambi i leader ingannano palesemente il tempo in attesa delle elezioni regionali nel Molise e nel Friuli Venezia Giulia, per carità, importantissime per loro oltre che per i cittadini di quelle Regioni, ma certo non quanto la questione del governo dell’Italia.

Il già difficile rebus dei governi di coalizione (è stato lungo e tormentato farne uno anche in Germania) è complicato nel nostro caso da un’anomalia tutta italiana. I due maggiori contendenti non sono infatti «partiti» in senso stretto, che cioè, come dice il nome stesso, si ritengono «parte» e sanno dunque che devono allearsi con altre parti; ma sono «movimenti», il cui programma politico è una palingenesi, capace di unificare l’intero Paese in un nuovo «totus», nazionale o digitale che sia (provocando per giunta, nei Cinque Stelle in particolare, anche un pericoloso fastidio per il dissenso interno e per le critiche dei media). Per quanti sforzi dunque facciano Di Maio e Salvini, due leader dinamici e certo più pragmatici dei movimenti che guidano, le mosse dei vincitori sembrano ancora elettorali, finalizzate cioè a conservare il consenso sul mercato quotidiano della popolarità. Mentre la soluzione della crisi richiederebbe di andare oltre questo shortermismo, per dare risposte concrete agli elettori invece che per esibire loro una coerenza di ferro.

Prima o poi i nuovi dioscuri della politica italiana, che tra l’altro a più di un mese dal voto non si sono nemmeno ancora incontrati, pur parlandosi ogni giorno sui media, dovranno comunque scendere da cavallo e dare qualche risposta a Mattarella. Più che chiedergli che cosa può fare lui per sbloccare lo stallo, dovranno dirgli che cosa intendono fare loro per non restare fermi. Il caso vuole che si tratti delle due forze politiche che più hanno protestato in passato contro governi tecnici o del presidente. Spetta a loro dimostrare che stavolta si possono evitare. Oppure biasimare se stessi quando arriverà il prossimo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT