10 dicembre 2018 - 21:50

Contro le violenze dei gilet gialli le condanne sono poche

C’è una forma di fascinazione pigra per questo clima culturale in cui alcuni si sentono legittimati a commettere violenze verbali e fisiche con la stessa soddisfazione liberatoria che proverebbe un bambino finalmente autorizzato a mettersi le dita nel naso

di Stefano Montefiori

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L protesta dei gilet gialli (Epa) L protesta dei gilet gialli (Epa)
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Impauriti dall’accusa incombente di far parte dell’élite rammollita e staccata dal popolo, nelle scorse settimane molti politici e commentatori francesi hanno dimenticato di ribadire quel che un tempo sembrava ovvio: e cioè che non è ammissibile insultare ebrei, neri, musulmani, omosessuali in quanto tali, e saccheggiare i negozi, bruciare le auto, dare l’assalto ai poliziotti e intimidire i cittadini che rifiutano il «gilet giallo». Sui cavalcavia delle autostrade appaiono scritte come «Macron prostituta degli ebrei», automobilisti neri vengono invitati a «tornare a casa loro», il segretario di Stato Mounir Mahjoubi è additato perché «omosessuale e musulmano», e sulla copertina di «Paris Match» appare trionfalmente in gilet giallo Hervé Ryssen, pluricondannato antisemita negazionista: un infortunio, ma significativo.

C’è una forma di fascinazione pigra per questo clima culturale in cui alcuni si sentono legittimati a commettere violenze verbali e fisiche con la stessa soddisfazione liberatoria che proverebbe un bambino finalmente autorizzato a mettersi le dita nel naso. Quando nel 1993 Robert Hughes pubblicò «La cultura del piagnisteo - La saga del politicamente corretto», la sua tirata contro l’ipocrisia delle anime belle era stimolante, anche se già allora discutibile. Venticinque anni dopo, l’Occidente stanco che magari si sottometterà anche, un giorno, all’Islam come da profezia di Michel Houellebecq, si lascia affascinare, qui e subito, da barbari che tradiscono ugualmente i suoi valori. Verrebbe da rimpiangere il politicamente corretto, se non fosse troppo fuori moda.

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