28 dicembre 2018 - 21:11

Una battaglia culturale

Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo degli ultrà di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre

Una <span class='titoloblu'>battaglia</span> culturaleGli scontri di Inter-Napoli, gli insulti a Koulibaly: <span class='occhielloblu'>una battaglia culturale</span>
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«Boxing day», l’avevano chiamato, e io ci avevo creduto: Natale col calcio, festa e bambini allo stadio. Gli ho risposto: «Lo fanno perché ha la pelle nera, e loro sono razzisti». E lui: «Ma allora perché non fischiano anche Asamoah?». Il quale, pur essendo nerazzurro, è effettivamente nero quanto Koulibaly.

Logica stringente. D’altra parte avevamo fatto il viaggio in metro fino a San Siro chiacchierando schiacciati l’uno contro l’altro con un ragazzo di colore di Capetown, Sudafrica, turista e tifoso interista. Ed eravamo seduti affianco a due cinesi, ma non cinesi di Milano, cinesi cinesi, tifosi nerazzurri. Ed eravamo lì per una squadra che si chiama Internazionale perché fu frutto della scissione dal Milan di un gruppo di soci che non accettavano la chiusura autarchica e sciovinista agli stranieri. Come si fa a essere razzisti e interisti?

E infatti il razzismo non spiega tutto ciò che è successo a Milano dentro e fuori lo stadio. C’è una logica precedente, tribale e belluina, nei comportamenti degli ultrà. Essi si ritengono tribù in guerra per il territorio con tutte le altre, e soprattutto con la tribù dei poliziotti, che odiano sopra ogni altra cosa. Quindi la regressione è a prima del razzismo, che è un frutto malato dell’Ottocento. Il modello è l’orda barbarica, che marca il terreno come fanno gli animali, con l’esibizione rituale quando va bene e con il sangue quando va male. L’insulto razziale, o «territoriale» come dice il codice sportivo, è usato per eccitare la violenza. Nero o napoletano fa lo stesso: purché sia nemico.

Come altro si può spiegare la spedizione punitiva organizzata ed eseguita ore prima della partita, quindi senza alcuna connessione con gli eventi sportivi sul campo, a danno di una carovana di tifosi napoletani? E i cori indegni di incitamento al Vesuvio, stupidi come le vecchie barzellette? Come comprendere altrimenti la presenza ai fatti di ultrà del Varese e perfino del Nizza, pare aggregatisi per vecchi conti da regolare con i tifosi partenopei?

Il nostro errore, l’errore di tutti noi che amiamo il calcio e pensiamo ogni giorno al calcio, o addirittura viviamo di calcio, è di aver dato un alibi all’integralismo ultramico, di aver accettato la loro narrativa, di credere che lo facciano davvero per i colori delle loro squadre. Ieri tanti bravi e onesti tifosi nerazzurri ripetevano sui social di «vergognarsi» per i «buuu» contro Koulibaly. Vergognarsi? Dunque ritengono gli autori di quei cori parte della loro stessa comunità? Solo del comportamento di un connazionale, o di un correligionario, o di un parente, ci si può vergognare. E noi, interisti anonimi, che cosa abbiamo in comune, oltre all’umana pietà per una vita distrutta e per due bambini rimasti orfani, con un uomo che militava in un gruppo chiamato Blood and Honour, aveva già alle spalle due Daspo ed era campione di un’arte marziale chiamata «giacca e coltello»? Perché non riusciamo neanche noi a uscire da una concezione tribale e territoriale del tifo, come se fossimo servi della gleba cui la nascita assegna un destino, e gli interisti, o gli juventini, o i napoletani, fossero una specie a sé, antropologicamente distinta? Anche noi, che pure non siamo ultrà, ci scherziamo su per tutta la settimana, ci provochiamo sui social: partecipiamo al gioco.

Questo errore lo fa anche il mondo del calcio ufficiale, quando accetta che l’alibi degli ultrà invada la giustizia sportiva, e giustifica o condanna un comportamento arbitrale, una ammonizione o una punizione, in relazione a ciò che succede sugli spalti. Perfino la «responsabilità oggettiva», istituto giuridico che esiste solo nel calcio, e a dire il vero neanche nel calcio nella maggioranza dei Paesi europei, accetta la stessa logica quando punisce la società e il pubblico di una squadra per ciò che fanno gli ultrà: senza nessun risultato tangibile, a dire il vero, ma con l’aggravante di consegnare in mano a un gruppo di violenti un’arma di ricatto formidabile nei confronti delle società e dei presidenti, ché se non fanno ciò che vogliono succede il casino (ricatto che abbiamo visto più volte funzionare).

La vera battaglia culturale da ingaggiare è un’altra: scacciare la logica tribale dagli stadi. Carlo Ancelotti, con la sua cultura cosmopolita acquisita sui campi di mezza Europa, forse oggi l’uomo più maturo e razionale del nostro pallone, l’aveva detto qualche mese fa, in tempi non sospetti: basta con gli insulti. Pur non essendo di colore, gli avevano dato del «maiale» in uno stadio italiano, per la semplice ragione che contro quella squadra lui aveva vinto una Champions. Sospendiamo le partite al primo insulto, aveva proposto. Chiudiamo le curve, se sono il territorio dei fuorilegge. Portiamo anche tra i calciatori il principio secondo cui civiltà ed educazione vengono prima di tutto (e che a terra non si sputa). Ora che abbiamo un «duro» al Viminale non dovrebbe essere difficile: essendo a sua volta ultrà, conosce bene la materia. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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