15 ottobre 2018 - 20:48

La bussola (russa)
dell’Italia

È doloroso sin d’ora constatare come chi gioca ogni giorno alla roulette non possa poi pretendere di essere preso sul serio. Nemmeno quando l’idea è buona.

di Franco Venturini

Questo contenuto
è conforme a
Vladimir Putin (Epa) Vladimir Putin (Epa)
shadow

Vladimir Putin era già sulla via di Helsinki dove avrebbe incontrato Donald Trump e la finale del campionato del mondo di calcio si era appena giocata il 15 luglio, quando Matteo Salvini, fermatosi a Mosca un giorno in più, decise di chiarire una volta per tutte quel che pensava delle sanzioni europee contro la Russia. Le sanzioni, disse in una dichiarazione pubblica ripresa da tutte le agenzie internazionali, devono essere revocate con ogni mezzo entro la fine dell’anno. Perché sono inutili e perché danneggiano l’Italia.

Ci siamo quasi, alla fine dell’anno. E il capo del governo italiano, il presidente del Consiglio Conte, sarà in visita al Cremlino il 24 ottobre: Putin sarà gentile e farà finta di niente, oppure gli chiederà cosa stia preparando l’Italia dopo la promessa fatta da Salvini in terra russa? E il medesimo Salvini, che con una iniziativa assai singolare domani precederà Conte a Mosca di sette giorni per partecipare al congresso della confindustria locale, confermerà l’impegno del luglio scorso, spiegherà se «con ogni mezzo» voleva dire che l’Italia porrà il veto al rinnovo delle sanzioni in dicembre, coinvolgerà il capitolo sanzioni anti-russe nel suo assalto all’Europa «di prima»? Episodi e dubbi, questi, che appartengono a una nevrosi della politica estera italiana già ampiamente riscontrabile nel «contratto» di governo sottoscritto da Lega e 5 Stelle.

Nel capitolo «Esteri» vi si leggeva la conferma dell’appartenenza alla Nato, gli Stati Uniti venivano definiti «alleato privilegiato» , ma subito dopo veniva annunciata una «apertura alla Russia» e si auspicava il ritiro delle sanzioni contro Mosca, «da riabilitare come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali». Peccato che le sanzioni, adottate nel 2014, abbiano fatto seguito alla crisi regionale dell’Ucraina e alla annessione della Crimea da parte della Federazione Russa. Peccato che la Nato queste sanzioni le abbia caldamente appoggiate e le appoggi ancora. Peccato che l’America «alleata privilegiata» consideri del tutto improponibile una revoca delle sanzioni contro la Russia malgrado la marcata simpatia del presidente Trump verso i guasti e i problemi che il governo di Roma sta provocando in Europa. Nello spazio di poche righe, il «contratto» annunciava una collocazione internazionale dell’Italia riassumibile nell’antica formula dei piedi in due staffe. E da allora proprio questo è accaduto, Di Maio si è silenziosamente rimangiato il promesso ritiro dall’Afghanistan, e Salvini, ancor prima dell’exploit di luglio, si era già segnalato per l’approvazione, appunto, dell’annessione russa della Crimea. Questo mentre l’Italia slittava verso oriente anche sulle questioni europee dichiarando guerra politica a Germania e Francia, e sostituendo a quelle alleanze consolidate il Gruppo di Visegrád. Senza minimamente considerare che i Paesi del Gruppo di Visegrád, sul tema non secondario dei migranti, erano i principali avversari dell’interesse nazionale italiano visto che rifiutavano di accogliere anche un solo rifugiato.

Nella generale perdita di bussola (più apparente che reale, perché Salvini ha un piano di sfondamento ben preciso almeno in Europa) , l’Italia rischia ora di sbattere contro un muro sulla revoca delle sanzioni alla Russia. A meno di voler scientemente usare il veto in Consiglio europeo per impedire il loro rinnovo, in ossequio alla ben nota strategia del tanto peggio, tanto meglio.

In verità la diplomazia italiana, nel triangolo tra la Farnesina, l’ambasciata a Mosca e quella a Bruxelles, aveva questa volta trovato una formula per salvare qualche faccia senza tradire la politica occidentale verso Mosca. Nel già citato 2014, quando furono introdotte le sanzioni, una interpretazione estensiva ma poco fondata portò, in aggiunta alle misure centrali, alla sospensione delle attività della Bers(Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo) a sostegno delle piccole e medie imprese russe. Va rilevato che la Banca Mondiale non ha invece sospeso un programma simile, e che l’aiuto alle piccole e medie imprese russe, ben distinte e decentrate rispetto alle grandi aziende di Stato legate al sistema di potere politico, risponde pienamente alla finalità di favorire lo sviluppo della società civile russa. Una finalità, questa, ribadita continuamente sia dall’Europa sia dagli Stati Uniti, e riscontrabile nella crescita di una classe media che rappresenta oggi la principale opposizione alla «democrazia illiberale» di Vladimir Putin.

Perché non si decide, allora, di lasciare intatte le sanzioni visto che in Ucraina non si vede alcun progresso ma di scongelare l’attività della Bers che oltretutto corrisponde ai nostri proclamati interessi strategici? L’idea è sul tavolo e sarà discussa dai ministri degli Esteri il 18 ottobre, Conte poco dopo potrà illustrarla a Putin, ma tanto a Bruxelles quanto negli Usa il via libera appare poco probabile. In un altro clima, forse, l’Europa ci avrebbe dato retta, pur con le solite divisioni interne. Ma l’Italia che ragiona, non è forse la stessa che quotidianamente sputa fuoco contro l’Unione Europea? Non è la stessa che sfida l’Europa e si prende gioco delle sue regole? E persino Trump, davvero non distinguerà tra farci un occhiolino a buon mercato sulla Libia e approvare una apertura ben più seria alla Russia? La partita non è ancora chiusa. Ma è doloroso sin d’ora constatare come chi gioca ogni giorno alla roulette non possa poi pretendere di essere preso sul serio. Nemmeno quando l’idea è buona.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT