28 ottobre 2018 - 20:58

Cosa c’entra il fascismo? Le evocazioni pericolose

Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte. Ma è quasi sempre sbagliato richiamarsi al passato regime

di Paolo Mieli

Questo contenuto
è conforme a
Cosa c’entra il fascismo? Le evocazioni pericolose
shadow

Si può dissentire da ognuna delle misure prese in questi mesi dal governo Conte. In molti, moltissimi casi sarebbe persino doveroso reagire. È altresì necessario esprimere queste critiche nei modi più espliciti ed energici. Soprattutto in momenti come questo in cui la manovra economica rischia di provocare uno sconquasso finanziario che potrebbe travolgere l’intero Paese. Ma è quasi sempre sbagliato evocare — per dar forza a discorsi del genere — il ritorno di un regime fascista.

Qualche giorno fa il Commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici — non nuovo a questa metafora — ha reagito con stizza all’atto inqualificabile di un europarlamentare leghista, Angelo Ciocca, che aveva ostentatamente calpestato i suoi appunti. Moscovici ha detto che quel gesto andava considerato «pericoloso» perché «da qui al fascismo il passo è breve». «Da qui al fascismo il passo è breve»? La guasconata di Ciocca era stata esecrabile, ma che c’entra il fascismo?

Ci guarderemmo bene dal sollevare un caso se si trattasse soltanto di una battuta qualsiasi sfuggita ad un pur importante rappresentante europeo. Ma sappiamo per esperienza che l’evocazione del fascismo è fin dalla seconda metà degli anni Quaranta un rafforzativo quasi obbligatorio della polemica da sinistra (ma non solo) contro i detentori di ogni genere .

Non soltanto politici ma anche personaggi dell’economia, agenti, magistrati, professori d’università e di scuola, preti, padri, fratelli sono stati gratificati con quell’epiteto: «fascista!». L’esercizio — anche non improprio — di ogni tipo di autorità espone quasi naturalmente a questa accusa. Talché il termine «fascista» è venuto a perdere ogni rapporto con la realtà degli anni Venti e Trenta in cui è diventato d’uso comune nell’intera Europa. Restando in Italia e limitandoci alla politica, ben cinque presidenti della Repubblica si sono trovati ad esser lambiti da quella definizione: Giovanni Gronchi ai tempi in cui favorì la nascita del governo guidato da Fernando Tambroni sostenuto dai voti del Movimento sociale italiano (1960); Antonio Segni allorché si trovò coinvolto nel caso Sifar (1964); Giuseppe Saragat accusato di aver incoraggiato la strategia della tensione (1969); Giovanni Leone portato al Quirinale dai voti del Msi (1971); Francesco Cossiga per le sue compromissioni con il caso Stay Behind (1991). Quando il più importante presidente del Consiglio del dopoguerra, Alcide De Gasperi, estromise i comunisti dal governo (1947), di lui si disse e scrisse che aveva «rotto l’unità antifascista» — cosa che in effetti fece — ma con modalità tali da spalancare la porta ad un ritorno in scena degli eredi della Repubblica di Salò. Per Amintore Fanfani che aspirava ad essere eletto presidente della Repubblica (1971) fu creata addirittura la categoria del «fanfascismo». «Fascista» fu definito Mario Scelba che resse per una decina d’anni il ministero dell’Interno con metodi sicuramente duri (anche se la legge del ’52 contro la ricostituzione del partito fascista e l’apologia del fascismo porta il suo nome). L’addebito colpì anche Giulio Andreotti: quando nel ‘72 varò un governo di centrodestra, gli fu rinfacciata la circostanza — in realtà una leggenda — secondo cui nel ‘53 aveva accettato un abboccamento ad Arcinazzo con il maresciallo della Rsi Rodolfo Graziani (cosa mai accaduta nei modi in cui fu poi raccontata). Identiche accuse ricevettero il presidente della Montedison Eugenio Cefis e persino l’avvocato Agnelli per aver tollerato che la Fondazione intitolata a suo nonno, sotto la guida di Ubaldo Scassellati, mettesse le basi di un piano di conquista e gestione del potere (il cosiddetto «cinque per cinque»). Inutile dire di Bettino Craxi costantemente effigiato su «Repubblica» con stivaloni mussoliniani. Ancor più inutile dire di Silvio Berlusconi a cui fu addirittura ostilmente «dedicata» la celebrazione della Resistenza del 25 aprile 1994.

Praticamente dal 1947 ad oggi non ci sarebbe stato anno senza che qualche esponente governativo favorisse un lieve o più deciso slittamento verso soluzioni autoritarie. Neanche uno. Ciò che forse (e sottolineiamo: forse) fu vero solo nel 1964 e in alcune fasi dei primi anni Settanta, sarebbe stata, invece, una costante della politica italiana. Con diversi livelli di intensità, certo. Ma pur sempre una costante. Possibile? Ovvio che no. A quel che gli storici seri hanno potuto accertare, la Dc e i partiti ad essa associati — eccezion fatta per qualche esponente di bassissimo rango — non hanno mai preso neppure in considerazione un’opzione autoritaria. Mai.

Di che cosa è fatto allora questo fantasma? Della stessa impalpabile non materia con la quale nel giudizio sulla politica internazionale è stata costruita l’accusa di «fascismo» nei confronti di quasi tutti gli ex presidenti degli Stati Uniti e persino del capo della Resistenza francese, il generale Charles De Gaulle, per i modi con cui nel 1958 promosse il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica. Nell’operato di tutti loro è stata intravista l’apertura di uno spiraglio verso una deriva autoritaria quasi fossero assimilabili a un caudillo, un colonnello o un Putin, un Orbán o un Erdogan ante litteram.

La verità invece è che il fascismo negli ultimi settant’anni non è più stato all’orizzonte dei Paesi occidentali e ad evocarlo ossessivamente si è costantemente rischiato e si rischia ancora di fare lo stesso errore compiuto nel 1924 da Gaetano Salvemini il quale, dopo l’uccisione di Giacomo Matteotti, si allarmava per l’eventualità di un colpo di stato militare monarchico: ciò che gli impedì di notare per tempo alcune specificità del mussolinismo. Specificità dei movimenti nuovi che vanno individuate in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone.

C’è infine un ultimo discorso più generale da fare sull’uso del termine «fascista». Lo scrittore inglese Ian McEwan in un’allocuzione tenuta nel giugno del 2015, in occasione della cerimonia per le lauree al Dickinson College, volle tornare agli anni Sessanta quando — raccontò — la sua università «vietò a uno psicologo di promuovere la teoria secondo cui c’è una componente ereditaria nell’intelligenza». Negli anni Settanta poi, proseguì McEwan, il grande biologo americano Edward Wilson fu sommerso da contestazioni che gli impedirono di prendere la parola per aver ipotizzato che esistesse un elemento genetico nel comportamento sociale degli esseri umani. Tutti e due «vennero definiti fascisti». E in seguito? «Le loro teorie adesso sono la norma», ha detto McEwan. Dopo quell’intervento, l’autore di Cortesie per gli ospiti ha continuato a criticare questa o quella iniziativa politica o culturale. Anche con parole molto dure. Ma non ha mai più fatto riferimento al fascismo. E sarebbe forse il caso di seguire il suo esempio.

Questo contenuto
è conforme a
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT