31 ottobre 2018 - 21:36

I cristiani e gli ebrei,
seminatori di speranza

Per chi viene da un’Europa che nei suoi Statuti ha ritenuto di non riconoscere le radici giudaico-cristiane e si scopre sovranista, poco solidale e ancor meno accogliente, è una sorpresa verificare la vitalità in Israele dell’incontro fra tradizione religiosa e prassi quotidiana

di Marco Garzonio

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Carlo Maria Martini a Gerusalemme Carlo Maria Martini a Gerusalemme
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Torno da un viaggio di studio in Israele dove ho accompagnato un gruppo di psicoanalisti, insegnati, professionisti in varie branche, credenti e non. «Sulle orme di Carlo Maria Martini» era il tema. In un’epoca complessa e spesso indecifrabile c’è bisogno di testimoni credibili, che insegnino ad andare oltre il contingente e abbiano l’umiltà essi per primi di riconoscersi bisognosi di qualcuno o qualcosa che dilati gli orizzonti e dia senso alla direzione di marcia. «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» è il versetto del Salmo che Martini volle inciso sulla tomba in Duomo. La scritta è la cifra d’una vita, insieme un modo per richiamare a tutti il nesso inscindibile tra la Terra Santa e il resto del mondo, tra Bibbia e vita, valori universali e pratiche quotidiane.

A Milano porta del Mediterraneo sull’Europa Martini ha rappresentato una Chiesa che va al cuore dei problemi che affliggono l’uomo e indirizza alla speranza. Bergoglio è stato fatto Papa perché il terreno di un rinnovato incontro tra fede e modernità era preparato. Martini fu Arcivescovo in anni tormentati, dal 1980 al 2002. Nuove povertà, violenze, terrorismo, solitudini, corruzione, egoismi, crisi delle rappresentanze sociali e politiche angustiavano le persone e mettevano a rischio la tenuta di politica, welfare, istituzioni, religione. Molto è stato fatto, ma non nel modo giusto, se talune di quelle realtà si sono aggravate. Sono evaporate maggioranze di ceti e partiti, mutati gli equilibri internazionali; ai disagi economici, all’accentuarsi delle ingiustizie sociali, alla frustrazione di contare poco o nulla s’è sommato un vissuto che prende alla pancia individui e comunità: la paura. Elementi di realtà stanno alla base delle emozioni che tingono le paure coi colori sinistri del rancore, generano proiezioni sull’altro ritenuto causa dei mali nostri, minaccia alle sicurezze di cui godiamo, ad abitudini, costumi, religione: all’identità, in una parola. Così la politica, a caccia di consensi, ha la tentazione di cavalcare l’irrazionale e la fede corre il rischio di finire nel privato senza incidere sui comportamenti collettivi.

Un viaggio in Israele può essere scuola di vita per districarsi in quanto accade. «Questo è un Paese dove si dialoga molto, nonostante conflitti e apparenze», sosteneva Martini da Gerusalemme dove si era ritirato. Portava le tradizioni religiose a esempio: «Al venerdì pregano i musulmani, al sabato gli Ebrei, la domenica i cristiani». Per chi viene da un’Europa che nei suoi Statuti ha ritenuto di non riconoscere le radici giudaicocristiane e si scopre sovranista, poco solidale e ancor meno accogliente, è una sorpresa verificare la vitalità in Israele dell’incontro fra tradizione religiosa e prassi quotidiana. Certo, i risvolti qui sono disuguaglianze, tensioni, provocazioni e morti a Gaza, insediamenti di coloni che proliferano, il muro che separa israeliani e palestinesi. Ma altra suggestione che a Gerusalemme spira è il pensiero che ci si può rialzare dopo le cadute, cambiare: il «risorgere» del cristianesimo. Martini indicò la via della «preghiera di intercessione» ai cristiani e al mondo, spesso preoccupato di schierarsi a favore dell’una o dell’altra delle parti in causa. Atteggiamento per niente neutrale, religioso ma dalle potenzialità sociali e politiche, una disposizione a creare punti d’incontro, nel rispetto delle ragioni di ciascuno, con la fiducia che prevalga l’obiettivo di «creare ponti» come predica Francesco.

Valgono i simboli. Il magistero di Martini è intessuto di immagini bibliche che ammaestrano: eredità impegnativa che Israele offre l’opportunità di raccogliere. Un esempio. A sintesi del viaggio, spunto di queste riflessioni, il gruppo ha piantato un ulivo a Giva’t Avni. Rav Giuseppe Laras, rabbino capo di Milano ai tempi di Martini e suo grande amico, volle far memoria del Cardinale intestando a lui un bosco in Galilea, là dove la predicazione di Gesù prese le mosse. L’amicizia umana e religiosa tra rabbino e cardinale (richiamata dal film di Olmi su Martini, «vedete, sono uno di voi» che grazie al gruppo è stato proiettato a Gerusalemme presente l’Ambasciatore d’Italia Gianluigi Benedetti) è seme di germogli. Infatti è stata rinnovata in quell’ulivo piantato con la collaborazione del Keret Kaymeth Lisrael la più antica organizzazione ecologica del mondo. Alle radici dell’ulivo è stato posto un messaggio che Mons. Mario Delpini, successore di Martini a Milano e con lui in continuità, ha affidato ai viaggiatori: «Siate seminatori di futuro, seminatori di speranza». La sfida è che piantare un albero in quel bosco diventi consuetudine per i gruppi che prendono la strada di Israele.

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