6 aprile 2019 - 22:11

Le riforme svanite

Mai come oggi, forse, alla vigilia delle elezioni europee e del Def da presentare al Parlamento entro il 10 aprile (mercoledì prossimo) è sempre più netta la sensazione di un governo che, diviso su tutto, appare incollato da un solo mastice: la sopravvivenza

di Gian Antonio Stella

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Senza scomodare la Cina dalla crescita stratosferica o le impennate di Paesi come la Lituania, i dati del Fondo Monetario Internazionale dicono che dal 2001 all’anno prossimo, al netto dell’inflazione, a dispetto della durissima crisi sofferta negli anni bui, la Francia dovrebbe chiudere il ventennio a +13,6%, l’Austria +17,3, la Spagna +18,5, i Paesi Bassi +21,2, la Germania +24,9. Perfino la Grecia dovrebbe segnare un +2%. Gli unici a essere sotto del 2,7%, in termini reali, rispetto a vent’anni fa, siamo noi. Sempre che l’«anno bellissimo» non ci riservi altri dispiaceri.

Eppure i temi sul tappeto, oggi come ieri, sono altri. Matteo Salvini che intima al ministro dell’Economia Giovanni Tria di sganciar subito i soldi a tutti i danneggiati (truffati o no) dai crack bancari «sennò vada a fare il panettiere». Luigi Di Maio che scopre di colpo i saluti romani di tanti amici del socio leghista e gli rinfaccia i rapporti con chi «nega l’Olocausto». L’altro che lo invita a lasciar perdere «fascisti, comunisti, nazisti, marziani e venusiani...» E poi la castrazione chimica, il feto di plastica, gli assessori sardi, i naufraghi da smistare ad Amburgo… E tutto intorno una miriade di petardi, mortaretti, castagnole…

Mai come oggi, forse, alla vigilia delle elezioni europee e del Def da presentare al Parlamento entro il 10 aprile (mercoledì prossimo) è sempre più netta la sensazione di un governo che, diviso su tutto, appare incollato da un solo mastice: la sopravvivenza. Nella scia non d’una svolta epocale con l’odiato passato ma al contrario di una delle più ciniche battute andreottiane: «Tiro a campà, dice? Meglio tirare a campare che tirare le cuoia».

Sono decenni che l’Italia tira a campare senza prendere di petto i problemi più seri. A partire dalle riforme della «macchina». Fallita la prima Commissione Bicamerale del 1983 guidata da Aldo Bozzi. Fallita la seconda del 1993 guidata da Ciriaco de Mita e poi da Nilde Iotti. Fallita la terza guidata nel 1997, d’accordo con Silvio Berlusconi («Io quando entro lì, in Bicamerale, sento una vocina che mi chiama papà. Mi sento veramente un padre costituente»), da Massimo D’Alema. Come se avesse (tragicamente) ragione il giornalista americano Richard Harkness che mezzo secolo fa, esasperato, si spinse a scrivere sul New York Times: «Dicesi Commissione un gruppo di svogliati selezionati da un gruppo di incapaci per il disbrigo di qualcosa di inutile».

Per non dire dei fallimenti della Riforma Costituzionale destrorsa dei «Quattro Saggi» bocciata dal referendum del 2006 e di quella «democratica» segata dalla consultazione del dicembre 2016 che costò il tracollo di Matteo Renzi. Giuste? Sbagliate? Certo è che le ipocrite e fastidiose rassicurazioni premurosamente abbinate ad ogni bocciatura dai nemici dell’una o dell’altra («Poche settimane bastano per fare subito riforme migliori!») sono finite tutte allo stesso modo. In ghiacciaia. Per la successiva era politico-geologica.

Questa è la tragedia. Non della destra o della sinistra, dei sovranisti o dei grillini. Di tutti. Sparate a parte, fatte solo così, estemporaneamente, perché quel giorno lì c’è da dare un boccone da masticare ai microfoni delle tivù o più ancora ai social in quotidiana crisi di astinenza, nessuno pare più interessato davvero a riformare davvero almeno alcuni pezzi centrali del sistema. Men che meno a confrontare su queste riforme, necessarie, le proprie idee con quelle altrui. Troppo faticoso, per chi vive di opinioni muscolari sulle quali «non si tratta». Sono regole parlamentari? Uffa…

Così tutti i problemi restano lì, appesi come caciocavalli tra il chiacchiericcio quotidiano, i proclami dal balcone di Facebook, le baruffe da ballatoio… Resta lì immota e immodificabile la burocrazia peggiore che, fingendosi docile ancella dei nuovi proconsoli ignari di procedure, si è impossessata del potere vero dettando leggi e leggine imperscrutabili, fino a infarcire l’obesa finanziaria «del popolo» di parole tipo «duodevicies» che non esistono neppure sui principali dizionari ma solo sulla «Gramatica» del Porretti del 1816.

E restano lì appesi i grandi programmi di manutenzione di un territorio a rischio idrogeologico e sismico che avrebbero bisogno di progetti condivisi e di patti politici intergenerazionali che durino decenni e non vengano smontati da ogni governo subentrante, mosso dalla fregola di buttar via tutto e ripartire daccapo con nuovi ministri, sottosegretari, consulenti e sottopanza. La memoria del lutto dell’Aquila deve ricordarcelo ogni giorno: prevenzione, prevenzione, prevenzione. E poi restano lì i temi degli ordini professionali troppo spesso chiusi ai giovani. Delle rendite di posizione sbarrate ad ogni concorrenza da proroghe indifendibili. Delle infrastrutture e della scuola e della sicurezza degli edifici pubblici e degli ospedali… Ma più ancora, su tutto, il tema del Mezzogiorno. I voti dei meridionali sì, quelli son sempre più appetiti. I voti. Ma non c’è studio, dossier o rapporto che non ricordi come tutto il Sud (nessuna delle regioni principali passa il 70% del Pil europeo) stia sprofondando a livelli di sussistenza. Altro che sconfitta della povertà.

Una cosa però ci serve più di ogni altra. Come scriveva una dozzina d’anni fa Ernesto Galli della Loggia «l’Italia ha soprattutto bisogno di verità. Ha un gran bisogno che finalmente si squarci il velo di silenzi, di reticenze, spesso di vere e proprie bugie, che per troppo tempo il Paese ha steso sulla sua effettiva realtà». Nel 2009, lasciando Roma, l’ambasciatore americano Ronald Spogli avrebbe confidato al nostro giornale: «L’Italia non può mantenere lo status di potenza economica se i suoi risultati rimangono così bassi». Ricordò «la burocrazia pesante, un mercato del lavoro rigido, la criminalità organizzata, la corruzione, la lentezza della giustizia, la mancanza di meritocrazia e un sistema di istruzione che non risponde ai bisogni del XXI secolo». E spiegò: «Mi sono chiesto come mai gli italiani non reagiscono nel vedere costantemente il proprio Paese agli ultimi posti delle classifiche sulla competitività mondiale». Sapesse in quanti ce lo chiediamo ancora tutti i giorni…

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