Ma il Pd ha bisogno di alleati

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Ora può. Adesso che si è rimesso in sesto e ha scavalcato in voti il M5S, riconquistando per sé il primato in alcune grandi città italiane, il Pd può (secondo logica) ricominciare a tessere la tela del rapporto con i Cinquestelle. A tre condizioni (dettate anch’esse dalla logica): 1) di spiegare in modo persuasivo perché, al di là di alcune questioni formali, tutti gli attuali dirigenti furono d’accordo, un anno fa, a non fare la scelta di accordarsi con Luigi Di Maio; 2) di calcolare bene i tempi prima di prendere contatto con i pentastellati in vista di un’eventuale alleanza e di farlo pubblicamente; 3) di inquadrare questa prospettiva all’interno di un contesto in grado di resistere qualora i grillini dovessero interrompere il rapporto per un qualche improvviso cambio d’umore. Più o meno quel che ha fatto, nel corso dell’ultimo anno, Matteo Salvini.

Il movimento fondato da Beppe Grillo è attualmente in preda alle convulsioni e non appare in grado di garantire, per il futuro, comportamenti lineari. Tra l’altro è impegnato a far sopravvivere l’attuale governo e ad evitare in ogni modo che si scivoli verso elezioni anticipate. È evidente, di conseguenza, la ragione per cui nessun dirigente del Pd allo stato attuale prospetta un’intesa con Luigi Di Maio. Tantomeno in questa legislatura.

Ma anche nella prossima legislatura in cui M5S e Pd potrebbero trovarsi entrambi all’opposizione, sarebbe consigliabile per Nicola Zingaretti procedere con la prudenza di chi si sta avventurando in una foresta zeppa di insidie. Un po’ come seppe fare il segretario del Partito comunista italiano tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947 quando esplorò la possibilità di un dialogo con il «Fronte dell’Uomo qualunque».

All’epoca Palmiro Togliatti (in procinto di essere cacciato dal governo presieduto da Alcide De Gasperi) cercava un rapporto con Guglielmo Giannini, il commediografo che aveva fondato il partito qualunquista. Ebbe l’accortezza, però, di farlo alla luce del sole con due articoli pubblicati in bella evidenza sul suo giornale, «L’Unità», il primo («Discorso serio a gente faceta») nel dicembre ’46, il secondo («Un po’ più di coraggio») nel gennaio dell’anno successivo. Poi, a fine ’47, capì che quella gente restava «faceta» e soprattutto che al suo partito non giovava presentarsi in loro compagnia in vista di un possibile reingresso nell’area di governo che ancora sperava possibile. E li abbandonò al loro destino.

Ed è un problema — quello di presentarsi in compagnia di formazioni spendibili per un eventuale governo — che ha anche, adesso, il Pd. Zingaretti e Paolo Gentiloni (segretario e presidente del partito) sono riusciti in poche settimane a riportare in vita il loro partito crescendo dal 18,7 al 22,7%.

Ma segretario e presidente sanno benissimo che, per effetto del calo dei votanti, i loro elettori sono scesi da 6.153.081 (quanti furono alle elezioni politiche del 4 marzo 2018) a 6.050.351. Ciò significa che ci sono stati oltre centomila esseri umani i quali un anno fa andarono al seggio per depositare nell’urna una scheda con la croce sul simbolo del Pd e che meno di una settimana fa hanno deciso di non ripetere quel gesto. Il che vorrà pure dire qualcosa. C’è poi il fatto che per tornare a respirare il Pd ha prosciugato le terre ad esso limitrofe. Talché Zingaretti non può legittimamente ora presentarsi come leader di un’area che comprenda altri raggruppamenti in grado di superare la soglia del 4%. Né a destra, né al centro, né a sinistra. Si può perciò ben comprendere l’intenzione di Carlo Calenda il quale, appena eletto nelle liste del Pd, si accinge a dar vita a «una forza di centro liberaldemocratica». Anche se appare singolare che voglia lanciarsi in questa impresa mettendosi preventivamente d’accordo con il segretario dello stesso Pd. Gli fosse concesso, chiunque dall’interno di quel partito potrebbe prendere iniziative dello stesso tipo nelle direzioni più diverse. E dubitiamo che, al momento delle prossime elezioni, Zingaretti darebbe indicazione di votare anche per questi nuovi soggetti politici correndo il rischio di veder diminuire il proprio monte suffragi.

Eppure, se non proprio il progetto di Calenda, qualcosa del genere andrà tentato. Una volta restaurato il bipolarismo, il centrosinistra, se vorrà battere un’ eventuale coalizione guidata da Matteo Salvini (o da chi per lui) dovrà essere in grado di presentare al Paese un’alleanza in grado di prendere più voti. Un po’ quello che dovette fare il centrosinistra a metà degli anni Novanta allorché — esauriti i lamenti, le grida, gli allarmi — riuscì a trovare un’intesa antiberlusconiana con i popolari di Rocco Buttiglione, con la Lega di Umberto Bossi (non meno politicamente scorretta di quella attuale), persino con il suo ministro del Tesoro Lamberto Dini e mise su l’alleanza guidata da Romano Prodi che alle elezioni del ’96 sconfisse il Polo delle libertà.

Adesso, in un contesto internazionale assai più complesso, è questo il compito che spetta a Zingaretti e Gentiloni: costruire un’alleanza tra partiti diversi — alcuni alla destra del Pd, altri a sinistra — che siano in grado di superare la soglia di sbarramento e arrivino, tutti insieme, a superare considerevolmente il 30 per cento.

È giunti a tale traguardo che sarà utile per loro aggregare a sé quel che resterà del M5S. Ripetiamo: un’intesa di massima con il partito guidato (fino a quando?) da Di Maio può essere cercata fin dall’indomani delle prossime elezioni. Ma un’alleanza tra un partito che ha poco più del 20 per cento dei voti e un altro che ne ha poco meno non appare risolutiva. Diversa sarebbe una combinazione in cui il centrosinistra fosse capace di presentarsi nel suo insieme con un ammontare di suffragi che superasse abbondantemente il 30 per cento.

Con questa costruzione, il partito di Zingaretti potrebbe mettere fuori gioco la destra non per via di una qualche provvidenziale iniziativa giudiziaria bensì sulla base di un corposo consenso ottenuto nelle urne. Se riusciranno a essere di nuovo competitivi, sarebbe un bene — oltreché per loro (ovviamente) — per l’intero sistema politico italiano che da quasi un decennio soffre per via dell’impossibilità di scegliere, al momento del voto, tra affidabili soluzioni alternative e prospettive di una qualche stabilità.

29 maggio 2019, 21:58 - modifica il 29 maggio 2019 | 22:22

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