Le vere quote di cui c’è bisogno
per una parità «di genere»

Illustrazione di ImageZoo/Corbis

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Questa settimana il Corriere ha dato molto risalto alla imminente scadenza della legge sulle «quote di genere» nei consigli di amministrazione (Cda). L’ appello per rinnovarla viene da donne e uomini leader di azienda come la presidente dell’Enel Patrizia Grieco e Alessandro Profumo, amministratore delegato (Ad) di Leonardo. Pur essendo stato uno dei primi a promuovere le «quote di genere» 10 anni fa, mi dissocio dal rinnovare la legge tout court e vorrei fare un’altra proposta.

Le quote di genere avevano una logica: inserire in modo forzato con un’azione positiva (affirmative action) più donne nelle posizioni di vertice delle aziende, non solo per maggior giustizia sociale ma perché più leadership femminile fa bene alle aziende. Era necessaria una forzatura perché, se in un comitato nomine di un Cda ci sono solo maschi nessuno pensa a cercare una donna. Quando nel 2008 fui uno dei primi a proporre in meritocrazia le «azioni positive» per avere più donne nei Cda, solo il 5% dei consiglieri erano donne. Ci voleva un’azione di rottura. Fui osteggiato da molte persone di azienda, anche molte donne, che mi accusavano di proporre un’iniziativa che andava proprio contro la meritocrazia. Ma andammo avanti e alcune parlamentari proposero la legge di cui si parla in questi giorni. In gran parte grazie a questa legge, in 10 anni le donne nei Cda italiani sono cresciute al 30% .

Le ottime professioniste (avvocate, fiscaliste, docenti universitarie) entrate nei Cda di aziende quotate, oltre a portare delle facce nuove diverse dal solito commercialista o avvocato amico dell’imprenditore di riferimento, hanno introdotto una ventata di serietà professionale, precisione e competenza soprattutto giuridica che hanno sicuramente migliorato il rispetto delle norme che regolano i Cda (la compliance) e le porcherie del passato oggi sono rare. Per la prima volta si è fatta una vera selezione e si è fatto ricorso a studi professionali per realizzarla.

Ma non è successa una cosa molto importante: non sono aumentate le donne Ad nelle aziende quotate italiane (praticamente non ce ne sono) diversamente dalle multinazionali e dalle loro filiali (vedi Silvia Candiani Ad di Microsoft Italia e Belen Frau Ad di Ikea Italia). Un’azienda seria sulla parità di genere deve proporre le quote non solo nel suo Cda ma anche nel top management. E le brave consigliere e presidentesse che oggi abbondano nei Cda italiani non mi sembra si siano molto adoperate per cambiare le cose (o, se lo hanno fatto, non se ne vedono i risultati). Per questo, rinnovare così come è la legge per le quote di genere non ha senso: le azioni positive sono una forzatura temporanea che termina quando l’obbiettivo è stato raggiunto e oggi le donne nei Cda italiani sono sufficienti per la parità di genere nei Cda senza bisogno di una legge. E Unicredito lo ha dimostrato aggiungendo una donna «fuori quota».

Peraltro, avere più donne Ad migliorerebbe anche i Cda perché aumenterebbe l’esperienza di management dei consiglieri (oggi abbastanza carente anche nei consiglieri maschi) e rafforzerebbe un ruolo dei Cda italiani che non sia solo quello di compliance con le norme delle società quotate ma anche nel guidare la strategia e controllare meglio la gestione. Oggi è necessario un altro tipo di azione positiva. I comitati nomine e risorse umane dei Cda devono avviare un processo per aumentare le donne a tutti i livelli apicali del management e non solo nelle funzioni di supporto come le Risorse umane e la finanza, ma anche nelle funzioni di line/gestione operativa. Devono fare un’indagine seria su quali sono le carenze e richiedere un programma formale per migliorare la situazione e identificare le candidate con i requisiti giusti, richiedere un piano di sviluppo individuale e controllarlo. Non è necessaria (né fattibile praticamente) una nuova legge, basta che il codice di autodisciplina delle società quotate richieda che le amministratrici dei Cda si facciano promotrici di un programma di quote di genere per top management come parte essenziale dei piani di successione a medio termine. La modifica deve prevedere una formula di «comply or explain» («avvio il programma e se no devo spiegare perché»). Dieci anni fa proposi una cosa simile anche per le quote di genere dei Cda, ma si preferì la legge.

Non ci sono ragioni per cui anche in Italia non dovremmo riuscire ad avere donne al top delle aziende: in 15 anni siamo arrivati ad avere metà dei prefetti donne. E senza leggi sulle quote di genere. Il rinnovo della legge non è il vero problema. O l’iniziativa per avere più donne al vertice viene avviata seriamente o sarà giusto eliminare le quote di genere per legge perché saranno servite solo a portare qualche poltrona in più e comunque oggi di donne nei Cda ce ne sono a sufficienza. L’esempio della legge sulle quote di genere è emblematico. La meritocrazia in Italia è diventata un termine positivo 10 anni fa, ma tutte le iniziative per aumentare la competizione e selezionare le élite senza discriminazioni e solamente sul merito si sono rivelate formali e con pochi contenuti. In Italia è nata solo la meritocrazia delle carte bollate.

2 marzo 2019, 20:30 - modifica il 2 marzo 2019 | 22:57

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