10 aprile 2018 - 21:50

Governo, i dubbi di Mattarella su un terzo giro con i partiti. L’idea di un «esploratore»

Stavolta la parabola evangelica secondo cui «gli ultimi saranno i primi» non vale. Si teme che non ci siano ancora le condizioni per un incarico

di Marzio Breda

Sergio Mattarella (Ansa) Sergio Mattarella (Ansa)
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Stavolta la parabola evangelica secondo cui «gli ultimi saranno i primi» non vale. Almeno per quanto riguarda il secondo giro di consultazioni al Quirinale che comincia tra 24 ore. Dunque è sbagliato pensare, com’è successo a Montecitorio ieri con una melodrammatica rincorsa di interpretazioni, che l’ordine d’ingresso dei partiti nello studio di Sergio Mattarella offra chissà quali vantaggi a chi sarà chiamato a chiudere la sfilata. Ossia i 5 Stelle, preceduti dalla delegazione del centrodestra, solo penultima. Un calendario leggendo il quale qualcuno si è spinto a sospettare che questo sia il segnale di un incarico imminente al movimento grillino per formare un nuovo governo.

L’ostacolo Berlusconi

In realtà, come ha poi puntualizzato il Colle, la decisione sull’ordine delle udienze si è fondata sulla considerazione che il centrodestra non costituisce un solo gruppo, ma si tratta di una formazione di tre gruppi, con rispettivi capigruppo e rappresentanti che vogliono presentarsi insieme. Ed ecco la scelta di riservare loro lo spazio destinato al maggior gruppo della coalizione, la Lega. Un’opzione «semplicemente protocollare e senza alcuna valenza politica, che non può fornire indicazioni future su eventuali mosse del presidente». Insomma: si è montato un caso su una questione di lana caprina, come si sarebbe detto una volta. Un quadro di diffidenze e tensioni che preoccupa il capo dello Stato. I contatti fra i partiti non sono andati bene, finora. Certo: tra 5 Stelle e Lega pare che si stiano perfezionando alcune idee comuni sul programma, ma resta insormontabile l’ostacolo Berlusconi, per non parlare delle rivalità tra Salvini e Di Maio sulla premiership. Fumate nere pure dal Pd, corteggiato (forse solo tatticamente) dai grillini, ma oggetto del desiderio anche di Berlusconi: i tormenti del partito, e le spinte aventiniane di Renzi, non permettono di sperare in un soccorso da quel lato del perimetro politico. Così, è scontato che Mattarella non nutra al momento fiducia di poter affidare venerdì un incarico pieno, e neppure un pre-incarico (che forse nessuno vorrebbe, per paura di fallire) su modello di quello che ebbe Pier Luigi Bersani cinque anni fa. L’ipotesi è remota. Come quella di un terzo giro di consultazioni, che l’opinione pubblica, sconcertata dallo stallo messo in scena finora dai partiti, potrebbe considerare quasi una pagliacciata.

L’identikit di Maccanico

Che cosa significa allora il mezzo annuncio che il capo dello Stato prenderà comunque delle decisioni? Posto che parecchi, Di Maio in testa, gli chiedono un altro supplemento di tempo (ad esempio di Salvini da Berlusconi o del Pd da Renzi), che cosa potrà fare? Lo strumentario a sua disposizione contempla due possibilità: 1) inventare una parentesi simile alla «commissione di saggi per le riforme» usata nel 2013 da Napolitano per guadagnare un paio di settimane, dopo il forfait di Bersani; 2) affidare un mandato esplorativo, e qui si apre un nodo complicato. Questo mandato fiduciario, infatti, usualmente si dà ai presidenti di Senato o Camera, ed è scontato che né Fico né la Casellati hanno già maturato l’esperienza per assolverlo. C’è però un’eccezione, nella storia repubblicana. È il caso di Antonio Maccanico (già ministro per le Riforme con un lungo curriculum da servitore dello Stato) che, nel febbraio 1996, dopo le dimissioni del governo Dini, ebbe da Scalfaro un incarico del genere, per formare un esecutivo di larghe intese con l’obiettivo di varare una riforma istituzionale. È presto per dire se la scelta di Mattarella sarà di questo tipo e chi, nell’attuale panorama politico, abbia un identikit assimilabile a quello di Maccanico. L’altra chance sarebbe un pubblico appello ai partiti affinché, con un bagno di realismo e riflettendo sulle esigenze del Paese, aprano «un dialogo formale» tra loro in Parlamento. Ma, visto che si dimostrano impegnati tutt’ora a giocare al maggioritario senza aver preso atto della natura proporzionale del voto, lo ascolterebbero?

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