17 dicembre 2018 - 23:03

Il governo e uno stallo che crea stabilità. Ma l’agenda del 2019 accelererà la competition

Malgrado contraddizioni e retromarce, nonostante si sopportino sempre meno, grillini e leghisti sono per il momento condannati a stare insieme

di Francesco Verderami

Il governo e uno stallo che crea stabilità. Ma l’agenda del 2019 accelererà la competition
shadow

Il «governo del cambiamento» si è distinto finora solo per aver cambiato la manovra, sul resto si muove come i governi precedenti: in Europa vota direttive all’apparenza indigeribili per una coalizione sovranista-populista; in Italia fa votare il Parlamento a colpi di fiducia. Malgrado contraddizioni e retromarce, nonostante si sopportino sempre meno, grillini e leghisti sono per il momento condannati a stare insieme. Il primo a saperlo è Giorgetti, che la scorsa settimana ha affondato il colpo contro M5S senza nemmeno avvertire Salvini: a farlo infuriare era stato l’ennesimo sgarbo subìto dagli alleati, un taglio alla proroga sul gioco d’azzardo che penalizza le società dilettantistiche sportive, a cui il sottosegretario alla Presidenza tiene. «È un mondo di pazzi», ha risposto a un leghista di governo che gli aveva scritto per la ricorrenza del suo compleanno.

Negoziato dilungato

Ma con quel «mondo» dovrà avere ancora a che fare, sebbene non sia facile assistere alla trattativa sulla legge di Stabilità senza dire «io l’avevo detto». Ché poi è la stessa condizione del collega grillino Buffagni, inascoltato mentre Di Maio festeggiava sul balcone di Palazzo Chigi. Ora l’esecutivo — per ammissione di un suo autorevole esponente — «è costretto a fare quanto avrebbe dovuto già fare», e si trova «a qualche milione dall’accordo» con la Commissione, che sta analizzando i conti di Conte come una società di revisione alle prese col bilancio di un’azienda a rischio. E nonostante Salvini e Di Maio sostengano che «i numerini» non si toccheranno più, c’è chi — nel Carroccio — ripete da giorni che «lo zero virgola zero quattro è il margine ulteriore di trattativa» che palazzo Chigi si è dato per chiudere l’intesa con Bruxelles. L’accordo prevedeva anche che la manovra venisse votata almeno da un ramo del Parlamento prima di ricevere il via libera dell’Europa: siccome il negoziato si è dilungato, la Commissione rinvierà il giudizio a gennaio. È un modo per tenere sotto osservazione l’esecutivo, dove si scommette che «alla fine non ci verrà comminata la procedura d’infrazione e ci beccheremo solo una raccomandazione».

Non esistono altre maggioranze

Insomma, si respira un clima d’ottimismo, accreditato anche da Salvini: «È Natale, Juncker sia buono». E la sensazione — espressa da un sottosegretario leghista — è che al dunque si arriverà a un «compromesso all’italiana, dove tutti potranno dire di aver vinto». È vero che Juncker ha spiegato al governo di «non avere intenzione di aprire un contenzioso». Tuttavia — a un passo dall’intesa — tra i ministri più esperti di questioni comunitarie c’è chi trattiene il fiato in attesa di capire come reagiranno i falchi dei paesi del Nord Europa. In attesa resta anche il Senato, dove non si sa ancora quale manovra votare: in altre epoche l’attuale situazione avrebbe preannunciato l’avvento di un altro governo. Il punto è che non esistono oggi altre maggioranze in Parlamento, e che tanto Di Maio quanto Salvini non possono né vogliono rompere: il primo perché non ha alternative, il secondo perché non gradisce l’alternativa di un gabinetto con Berlusconi e un gruppetto di fuoriusciti camuffati da «responsabili». È lo stallo a produrre la stabilità che il Colle tende a preservare attraverso un canale diretto e privilegiato con il premier.

Vecchi schemi

Ma è una calma apparente in vista del 2019, quando si dovranno declinare in norme i due provvedimenti bandiera di M5S e Lega, quando si dovrà decidere della Tav e delle autonomie regionali, quando ci sarà la competition per le Europee. E si vedrà se sarà solo una sfida giocata sul terreno politico, perché ieri Salvini è stato sibillino parlando di giustizia: intervistato da «Quarta Repubblica», ha detto infatti che «la stragrande maggioranza dei magistrati tiene la politica fuori dai tribunali. Ma c’è qualcuno che resta ancorato ai vecchi schemi e pensa di usare la toga per fare quello che gli italiani non hanno fatto in cabina elettorale». Torna il ticchettio?

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT