3 giugno 2018 - 00:16

Berlusconi, miracolo finito: il declino del centrodestra

FI e Pd dovranno ripensarsi. Ne avranno la capacità e l’animo i due sconfitti gemelli?

di Pierluigi Battista

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I grandi sconfitti del 4 marzo sono due, non uno. Non Matteo Renzi e basta, come si tende a dire con spirito un po’ corrivo. Ma due: Renzi e Silvio Berlusconi. Con la vittoria di Matteo Salvini nelle urne, si è dissolto il centrodestra di marca berlusconiana. Nominalmente la coalizione del centrodestra è ancora al primo posto, ma nei fatti ha cambiato natura, linguaggio, collocazione, identità. Il centrodestra a trazione salviniana ha modificato l’agenda di una coalizione nata all’alba del 1994 con caratteristiche che oramai sono appannaggio di una minoranza tristemente attestata attorno al 10 per cento dei consensi. Una storia si è conclusa, il mantra del centrodestra unito attorno al suo indiscusso leader e fondatore, appare un’invocazione vuota.

Nel 2008 il Pdl aveva conquistato il 38%. Solo dieci anni, non cento. E in dieci anni l’arretramento è quantitativamente clamoroso. Nel 2013 la resa dei conti fu solo rimandata grazie all’incredibile autogol del Pd allora guidato da Pier Luigi Bersani che non era riuscito, davanti alla porta semivuota, a vincere la partita decisiva e a «smacchiare il giaguaro»: non capendo, come tutti, le dimensioni dell’elefante grillino che si stava imponendo. Adesso, con Salvini che sposa i 5 Stelle e con la base di Forza Italia tentata dalla migrazione disordinata sotto le bandiere della Lega, il centrodestra della «rivoluzione liberale», della guerra (almeno verbale) al torchio fiscale, del «popolo della libertà», dell’antistatalismo, dei discorsi trionfali al Congresso degli Stati Uniti e all’omaggio berlusconiano all’«american flag», dell’adesione al Partito popolare europeo, quel centrodestra dovrà, se vuole avere ancora un futuro, ripensarsi profondamente. Come il Pd. Ne avranno la capacità e l’animo, il Pd e Forza Italia, i due sconfitti gemelli?

Il centrodestra a guida berlusconiana così come lo abbiamo conosciuto e che ora sembra svanire nella malinconia della marginalità ha fondato nel 1994 in Italia il bipolarismo politico, seppellendo la stagione proporzionalistica della Prima Repubblica demolita sotto i colpi di Mani Pulite. Richiamò sotto le sue bandiere un ceto medio frastornato dall’invadenza fiscale, un Nord produttivo che si sentiva defraudato dal centralismo romano, un pezzo di società, quello delle partite Iva, dei piccoli imprenditori, dei commercianti, della piccola borghesia spaventata dall’ascesa della sinistra post comunista legata fino a pochi anni prima all’Unione Sovietica implosa nel 1989. Mise insieme, con la potenza di un tycoon della televisione capace di una comunicazione molto più pervasiva e «popolare» di quella dell’antagonista di sinistra, l’animus protestatario del leghismo antisistema, gli eredi della destra italiana ancora imbozzolata, prima del lavacro di Fiuggi, nell’identità neofascista, una parte del ceto politico del moderatismo italiano, in particolare della Dc, spazzato via dalla tempesta giudiziaria del ’92-’93. La leadership indiscussa era la sua, di Silvio Berlusconi e di Forza Italia, che portò alla ribalta politica una nuova antropologia, un nuovo modo di parlare, persino di vestirsi.

Tra i cronisti e commentatori della politica l’avvento di quel centrodestra fu fonte di stupore per quei «nuovi» che sembravano marziani nella sonnacchiosa routine della Roma politica: la stupefazione per i nuovi «barbari» non è una novità di questi giorni, risale almeno al 1994. Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini segnavano il quadrilatero di uno schieramento politico destinato a vincere le elezioni anche quando le perdeva. Come nel ’96, quando perse perché si presentò disunito. O nel 2006, quando al termine di una fantastica rimonta, il centrodestra venne staccato dallo schieramento guidato da Romano Prodi di soli 25.000 voti. Il centrodestra creato e forgiato da Berlusconi rappresentava stabilmente una parte decisiva del mondo sociale, non era solo uno stato d’animo o uno slogan.

I suoi pilastri ideologici trasmettevano al popolo del centrodestra il senso di un’unità profonda. Anche nelle tempeste che per un certo periodo avvelenarono la rottura tra Bossi e Berlusconi. Anche con la frattura con Casini. Il Pdl trionfa nelle elezioni del 2008 dopo il fallimento della troppo vasta ed eterogenea coalizione di Prodi, e se si pensa che al 38% del Popolo della ibertà si aggiungeva il 5% della Lega non ancora salvinizzata, si ha un’idea della massiccia forza elettorale di allora. Poi la rottura con Fini, che incrinò la compattezza del centrodestra. Poi la tempesta finanziaria del 2011 che estromise Berlusconi da Palazzo Chigi, poi la condanna giudiziaria. Ogni volta Berlusconi veniva dato per finito, ma poi era capace di risorgere. Fino al 4 marzo, quando la sfida per la leadership con Salvini, lanciata con la certezza di essere vinta come al solito, non è stata clamorosamente perduta. Ora sono emerse altre parole, il sovranismo, l’antieuropeismo, l’animus anti-immigrazione, che hanno scalzato quelle del centrodestra berlusconiano. Per Forza Italia comincia veramente la fase della sua prima, dolorosa traversata nel deserto. Credere nel miracolo italiano, e del Berlusconi che non cade mai, non basta davvero più.

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