15 giugno 2018 - 23:05

Giorgetti preoccupato per il governo: «Ma a cena mangio, non faccio promesse»

Raccontano di averlo sentito imprecare con se stesso, siccome è stata la sua proverbiale prudenza a metterlo nel tritacarne mediatico-giudiziario

di Francesco Verderami

Giancarlo Giorgetti (LaPresse) Giancarlo Giorgetti (LaPresse)
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Roma è una buca, prima o poi si incespica. Infatti non c’è inchiesta nella Capitale che non sia di larghe intese, come testimonia l’ultimo filone sullo stadio. Ma a preoccupare Giorgetti non è tanto la fastidiosa storta presa per la cena con il costruttore Parnasi. Il pensiero del sottosegretario è rivolto piuttosto alle ripercussioni politiche che l’indagine potrebbe provocare sulla giovane maggioranza di governo. I suoi timori hanno trovato riscontro l’altra sera in Consiglio dei ministri, alla fine di una giornata iniziata tra i soliti arresti eccellenti e le solite rivelazioni giudiziarie. Li ha riconosciuti sul volto teso di Di Maio, nel suo modo di fare insolitamente nervoso, mentre entrava e usciva dal salone, sempre attaccato al telefonino, sempre più distante dai temi che si stavano affrontando. Fino a eclissarsi, per rientrare solo quando la riunione stava per concludersi. E nel frattempo aveva raccolto altri indizi, tratti dalle parole sopra le righe di alcuni alleati grillini, con la Lezzi che da ministro per il Sud chiedeva a gran voce un ruolo nella delega sulle autonomie, di competenza della collega leghista Stefani, che a sua volta rivendicava ciò che a suo giudizio le spettava. Tanto che a un certo punto è dovuto intervenire il premier per sedare il battibecco. E pure con Conte, Giorgetti aveva avuto il suo bel da fare sull’argomento dei poteri ai vari dicasteri: lui scriveva e l’altro leggeva attentamente, fino a ingaggiare un confronto definito dai presenti «molto franco».

«L’Italia è un Paese di matti»

Il sottosegretario già avvertiva il dolore alla caviglia, perché era stato informato che nelle carte dell’inchiesta era finita la sua cena con Parnasi, considerato dall’accusa l’epicentro del nuovo malaffare. Raccontano di averlo sentito imprecare con se stesso, siccome è stata la sua proverbiale prudenza a metterlo nel tritacarne mediatico-giudiziario: «Non vado in giro per ristoranti, non mi piace». Così ha accolto l’invito a casa del costruttore, che conosceva. Certo non immaginava che — travolto da una vertigine di potere — il padrone di casa avrebbe poi confidato: «Il governo l’ho fatto io». «L’Italia è un paese di matti», oltre che di santi eroi e navigatori. Ma vai ora a spiegare che a quella cena «ho solo mangiato e non ho promesso nulla». Secondo le carte degli stessi magistrati Giorgetti non ha da difendersi, e lui non ha di che giustificarsi. Ma gli brucia la storia di essere finito in «un film già visto», e avrebbe preferito non esserne un’autorevole comparsa. Per uno che di governo aveva parlato con il capo dello Stato e con il presidente della Bce, non è gradevole leggere che si sarebbe fatto consigliare da un palazzinaro: «Ora però mica mi faccio condizionare da queste cose. Ho altre cose da fare, ho altro a cui pensare». Ecco il vero problema, ecco quali sono i suoi timori. Perché un conto è l’aspetto giudiziario dell’inchiesta sullo stadio della Roma, che non lo riguarda, altra cosa sono gli effetti sul governo, sui rapporti con gli alleati grillini.

La presunta «diversità» dei Cinque Stelle

Il seme della diffidenza, già germogliato dentro M5S per via del movimentismo di Salvini che ha messo in ombra Di Maio, ora potrebbe attecchire nei passaggi delicati delle nomine. E allora sì che cambierebbe tutto. Non basta un indistinto appello alla coesione, quel «sappiamo di avere tutti contro» che è il sintomo della sindrome di accerchiamento. Peraltro, qui contributi di Parnasi a un’associazione vicina alla Lega potrebbero alimentare i sospetti del vicino di sedia nella stanza dei bottoni. È vero, non c’è nulla di penalmente rilevante in quella dazione di danaro. Ma per un movimento come i Cinquestelle — che ha costruito sul codice etico la sua presunta «diversità» dal resto dei partiti — l’inchiesta di per sé è devastante, dato che rischia di delegittimare l’immagine del giovane capo. E Di Maio potrebbe essere indotto a estremizzarsi per non venir travolto dai suoi avversari interni. Forse quelle tensioni in Consiglio dei ministri sono state solo un fatto casuale, ma non c’è dubbio che Giorgetti è lì che scorge un problema e lavorerà per risolverlo. Magari ripenserà al dolore della sua caviglia, proprio lui che aveva catechizzato i ministri della Lega: «Mi raccomando ai telefoni, ai viaggi, ai rapporti dentro e fuori i vostri ministeri». Roma è piena di buche.

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