15 giugno 2018 - 22:33

Quando la politica si perde tra le vie della discordia

Le lotte identitarie sui nomi delle strade, da Almirante a Lenin. La toponomastica non è politica con altri mezzi: ne è semplicemente la sostituzione

di Pierluigi Battista

In alto da sinistra, Giorgio Almirante, Bettino Craxi, Vittorio Emanuele III e Vladimir Lenin In alto da sinistra, Giorgio Almirante, Bettino Craxi, Vittorio Emanuele III e Vladimir Lenin
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Dicono che la toponomastica sia la politica condotta con altri mezzi; magari, almeno in queste guerricciole sulla toponomastica la politica avrebbe un ruolo. Invece no. Il gruppo consiliare di Fratelli d’Italia a Roma non è che elabora qualche proposta, per dire, per smaltire i rifiuti o per impedire che gli autobus vecchi e malmessi vadano a fuoco. No, spende il suo tempo per la battaglia identitaria su via Almirante. Una cosa da talk-show, un espediente acchiappa-audience. Non costa niente e dà visibilità, aizza le tifoserie, regala un ruolo a chi in politica ne possiede uno molto marginale. La toponomastica non è politica con altri mezzi: ne è semplicemente la sostituzione. È la prevalenza del simbolico sul concreto. Anche il sindaco di Napoli de Magistris, forse stanco dal lavoro oscuro di amministratore che dovrebbe prosaicamente tenere le strade pulite, si è prodotto nella sua battaglia toponomastica proponendo, a molti decenni di distanza, di sradicare da vie e insegne il nome del vituperato Vittorio Emanuele III. E c’è sempre qualcuno a sinistra che propone di intestare qualche piazza a Enrico Berlinguer, o a Bettino Craxi, come se una targa desse ufficialmente il titolo di «Padre della Patria», come se una memoria divisa si potesse miracolisticamente ricomporre con il nome di qualche viale. E ci fosse qualcuno che proponesse, per dire, di intestare almeno un vicolo ai dodici professori che (tra migliaia di colleghi meno coraggiosi) dissero di «no» al giuramento al regime fascista. Quelli sono inclassificabili, inetichettabili, non fanno audience: che restino pure nelle cantine della dimenticanza permanente.

Poi, ovvio, nella guerricciola toponomastica l’effetto amplificazione è sempre sicuro. Il nome di Almirante poi, essendo superdivisivo, non può che scatenare reazioni emotive con puntualità pavloviana: i fascisti intestano, gli antifascisti disintestano. Ma queste sono parodie, ancora, per fortuna. Le guerre toponomastiche vere hanno dietro drammi, tragedie, spaccature profonde nella sensibilità collettiva. Basti penare al carico di ostilità e di veleno che grava sulle battaglie linguistiche e toponomastiche a Bolzano (Bozen) e nell’Alto Adige (Südtirol). Alla slavizzazione violenta dei nomi italiani a Fiume, nell’Istria e nella Dalmazia successiva all’italianizzazione fascista dei nomi slavi. Con la fine dell’Unione Sovietica comunista sono cambiati anche i nomi delle città, San Pietroburgo al posto di Leningrado che aveva preso il posto di Pietrogrado, a loro volta sovietizzate dai padroni della Rivoluzione: oramai le statue dedicate a Lenin svettano solo nei Comuni dell’Emilia (ex) rossa, come Stalingrado la cui targa adorna le vie di Bologna. Dopo il fascismo a Roma la via dei Martiri fascisti prese il nome di Bruno Buozzi, uno che martire è stato davvero, ma vittima dei fascisti. Ora la guerra toponomastica vera, quella cruenta, quella che si gioca all’indomani dei fatti tragici e non dopo tanti decenni dopo, si gioca sulla perdita di tempo con la proposta di scrostare l’obelisco del Foro Italico (ex Mussolini) per levar via la scritta «Dux», o con le lamentazioni della destra che non si dà pace su via Palmiro Togliatti e per risarcimento chiede analogo trattamento toponomastico per Giorgio Almirante, morto trent’anni fa.

La guerra toponomastica ha anche i suoi aspetti più divertenti, come la decisione di intestare a pochi passi da San Pietro una grande via dedicata all’eroe dell’anticlericalismo Cola di Rienzo e di nominare piazza Risorgimento un gigantesco slargo proprio sotto le mura del Vaticano. Ma un eccesso di furore toponomastico può degenerare nel grottesco, anche se non meno pericoloso. Come la corsa all’abbattimento delle statue di generali sudisti negli Stati Uniti a circa centoquarant’anni di distanza. O come le piccole scaramucce che di tanti in tanto si accendono in Italia per vie, piazze, vicoli e viali, magari periferici, ma che dovrebbero rappresentare la ricompensa simbolica di un malumore politico, o il segno di una vittoria con cui schiacciare gli avversari in difficoltà. Sarebbe molto meglio astenersi da queste attività ludico-toponomastiche, magari riprovando davvero a fare politica. Quella seria, però, decisamente più difficile.

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