22 aprile 2019 - 20:07

Il 25 aprile 1994, la grande piazza
E nacque il tic (insensato) del «nuovo fascismo»

Anche Bossi andò alla mega manifestazione che la Sinistra convocò contro il Cavaliere Nero

di Pierluigi Battista

Il 25 aprile  1994, la grande piazza E nacque il tic (insensato) del «nuovo fascismo»
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Il 25 aprile del 1994 le cerimonie per l’anniversario della Liberazione furono molto diverse da quelle celebrate appena un anno prima, nel 1993. L’anno prima un rituale stanco e sfibrato, con uno slancio emozionale molto debole. L’anno successivo, quello del ’94, una manifestazione combattiva e militante, l’ondata di piena di un sentimento antifascista redivivo. Il 25 aprile dell’anno precedente cerimoniale e retorico. Quello dell’anno dopo incandescente e febbrile. Un incendio di emozioni, che sprigionava le sue fiamme malgrado il diluvio apocalittico che si era abbattuto su Milano. Perché? Cosa era successo in quei dodici mesi per riesumare una bellicosità antifascista che si era scolorita, che sembrava aver perso per sempre ogni significato drammaticamente attuale, non puramente rievocativo? Era successo che un mese prima aveva vinto il Cavaliere Nero Silvio Berlusconi che si era portato appresso i fascisti del Msi di Fini non ancora sbiancati nelle acque purificatrici di Fiuggi, gennaio 1995, e questa vittoria aveva gettato nel panico uno schieramento portato a identificare la propria sconfitta come un campanello d’allarme per la stessa democrazia.

All’indomani del trionfo elettorale berlusconiano che, come ha ricordato Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) aveva letteralmente e non solo per metafora provocato malori, mancamenti e crisi di nervi nel cuore dell’intelligentcija di sinistra, il manifesto aveva lanciato l’appello, che solo un anno prima sarebbe caduto probabilmente nel dimenticatoio della marginalità: facciamo un grande, anzi grandioso corteo antifascista il 25 aprile a Milano, mobilitiamoci contro il pericolo del ritorno fascista, invadiamo le piazze per impedire l’instaurarsi del regime nero. E le masse risposero di sì, aprirono ombrelli, indossarono giacche a vento e impermeabili e invasero Milano intonando commossi Bella ciao mentre sul palco attori e nomi importanti srotolavano le lamentazioni del rosario antifascista o chiamavano il popolo di sinistra a una «nuova Resistenza».

A un certo punto, in margine al corteo ma bene in vista, si materializzò la figura di Umberto Bossi, l’alleato di Berlusconi, ma che diceva, con la sua rudezza e la violenza verbale che spaventava a singhiozzo a seconda degli obiettivi presi a bersaglio del rauco lessico bossiano, di voler prendere i fascisti «casa per casa». Qualcuno fischiò, i più estremisti, ma il grosso della manifestazione colse in pieno il significato simbolico di quella inattesa presenza e lo stesso Bossi ebbe a commentare: «Normale che ci sia un po’ di rabbia, ma il nostro posto è lì, noi siamo antifascisti». Ecco la differenza: nel 1993 non si sentiva il pericolo di un ritorno al fascismo, nel 1994 una parte degli sconfitti delle elezioni sentì invece il contrario, sentì l’ombra del fascismo tornare minacciosa.

Ma il fascismo non arrivò, per fortuna. Anzi, no, non per fortuna ma perché la politica della sinistra capì la lezione e invece di continuare a gridare al pericolo fascista si preparò, tra mille difficoltà, a contrastare l’avversario, con le armi della democrazia, non con quelle della testimonianza e dell’allarmismo. Con i voti da riconquistare, non con la Resistenza in montagna. Agitando il pericolo fascista (di un fascismo inesistente, esistente soltanto nelle fantasie catastrofiste di una sinistra che si sentiva impotente) non solo si attingeva a un repertorio stranoto e rassicurante, con il feticcio dell’«unità antifascista», ma si evitava la fatica del ricominciare pazientemente da capo.

Nella cultura di sinistra le lamentazioni proseguirono strazianti, ma in poco tempo il governo Berlusconi fu esautorato, la sinistra trovò un leader, Romando Prodi, e uno schieramento credibile, l’Ulivo. Nessuna libertà politica fondamentale fu messa in discussione e attraverso libere elezioni, impensabili in un regime fascistoide, lo schieramento antiberlusconiano governò per sette anni, poi tre anni in governi «tecnici» e poi per cinque anni dal 2013 al 2018 con un partito come il Pd che aveva raccolto soltanto il 25 per cento dei voti ma che grazie a una legge elettorale sciagurata e bocciata come anticostituzionale ha potuto disporre di una smisurata maggioranza parlamentare.

Il «ventennio berlusconiano», come si dice usando un’espressione che possa perpetuare per richiamo analogico la somiglianza con il fascismo, ha conosciuto l’alternanza di governo come tutte le democrazie occidentali mature. Le certezze sul nuovo fascismo si sono rivelate fallaci, anche se per anni si è disquisito su quale aspetto del regime mussoliniano la ripetizione fosse più spiccata. E si sono scoperte le formule del «fascismo light» e del «fascismo 2.0», per cercare di attenuare l’enormità di un paragone che non ha mai avuto in aggancio con la realtà storica e politica. Gli echi del 25 aprile 1994 si sono spenti ma perdura il tic dell’allarme del «nuovo fascismo». La lezione del dopo ’94, e cioè che è con i mezzi della politica democratica e non con gli appelli concitati a una nuova Resistenza che la democrazia può funzionare. E che costruire le condizioni dell’alternanza è più difficile, anzi la cosa più difficile, ma è l’unica che abbia un senso: un diluvio di voti, non il diluvio del 25 aprile 1994.

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