24 febbraio 2019 - 23:42

Regionali, Salvini guarda i dati. E sente la pressione dei «vecchi» alleati

Ma sul governo assicura: non cambierà nulla. Il primo partito ha una massa gravitazionale che sembrerebbe consentire il «doppio forno» nazionale-locale

di Marco Cremonesi

(LaPresse)
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Primo partito, primo partito, primo partito… Intorno a Matteo Salvini queste due parole ieri sono rimbombate per tutto il giorno: come in Abruzzo, anche in Sardegna la Lega sarà il partito più votato. E così, quando alle 22 vengono diffusi da Rai3 i dati degli exit poll, qualche delusione tra i salviniani si respira: tra il 12 e il 16 per cento non sembra l’exploit atteso. Il progresso rispetto alle politiche c’è ma non ha certo i caratteri esplosivi dell’Abruzzo. Lui, il vicepremier, al tam tam del «primo partito» si era sempre sottratto: «È comunque un voto locale». Anche se i comizi sempre strapieni lo avevano certamente toccato. Eppure, nel risultato sardo che si apprenderà soltanto oggi è contenuto un problema. Per la Lega nessun obiettivo è più fuori portata ma la questione diventa vistosa: a vincere, in Sardegna come in Abruzzo, sembra essere il vecchio e tradizionale centrodestra. E così, al di là delle Europee, il 2019 potrebbe consegnare un’Italia completamente trasformata già rispetto all’anno precedente. «Basta guardare il calendario — dice un vicinissimo al vicepremier poco prima degli exit poll —: il mese prossimo la Basilicata, il Piemonte in maggio insieme alle Europee e poi giù fino a novembre con la Calabria e la madre di tutte le sfide: l’Emilia-Romagna», la regione «rossa» per eccellenza. Che da accordi entro il centrodestra avrà un candidato leghista. Ma appunto: è possibile che il modello fin qui seguito sia percorribile? Per usare le parole di un deputato: «È possibile vincere dappertutto, magari battaglie epocali, con una certa alleanza e poi continuare come nulla fosse con chi invece continua a perdere?».

Consenso ai massimi

E così, se i risultati fossero confermati, il sistema che sembrava rodato, perfettamente funzionale a vincere tutto, mostra delle crepe. Anche se Salvini, nel suo comizio di ieri a Recco (alla faccia delle urne aperte), a chi gli chiede del futuro del centrodestra risponde che «funziona a livello locale e continuerà a farlo». La linea è che il governo va avanti: «Non cambierà nulla negli equilibri di oggi». Insomma, avanti tutta: il primo partito ha una massa gravitazionale che sembrerebbe consentire il «doppio forno» nazionale-locale. Per usare le parole di Antonio Tajani (Forza Italia): «Gli italiani vogliono cambiare. I cittadini chiedono una politica economica e una politica estera univoca». Fin qui, il copione. In realtà, Salvini sa benissimo che un altro risultato negativo per M5S aprirebbe scenari imprevedibili. Ieri, su domanda, lo ha ripetuto per l’ennesima volta: «I 5 Stelle non si spaccano e il problema non si pone». Resta il fatto, per dirla con un salviniano doc, che «Matteo è il primo tifoso per un risultato decente del M5S in Sardegna». Eppure, al di là delle rassicurazioni di Luigi Di Maio, tra deputati e senatori l’ipotesi estrema di un’implosione degli stellati continua a circolare. E a Salvini continuano a dirlo, non tutti con la morte nel cuore. Ma in risposta arriva sempre lo stesso discorso: «In questo momento non si capisce perché dovremmo fare qualcosa di diverso da quello che stiamo facendo. Il consenso è ai massimi, il governo sta producendo dei risultati importanti, e dunque siamo nella condizione di gran lunga migliore che qualsiasi altro partito». Insomma, per vincere serve sempre il centrodestra. Ma per governare non è detto. Anche perché il risultato non eclatante di nessuno dei due partner di governo sembra esattamente ciò che serve a stabilizzare il governo. Per Matteo Salvini, si apre la riflessione.

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