27 gennaio 2019 - 21:53

L’interventismo di Mattarella, la metamorfosi del presidente

Il capo dello Stato si è «rassegnato» al cambio di passo. E nel suo quinto anno al Quirinale lo aspettano altre svolte importanti

di Marzio Breda

<span class='fondino'>L&rsquo;interventismo di Mattarella, la metamorfosi</span><span class='fondino'> del presidente</span> Sergio Mattarella, 77 anni, e la figlia Laura, 50, lo scorso 7 dicembre a Milano alla prima della Scala: per il capo dello Stato 5 minuti di applausi
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C’è chi ricorda ancora la battuta girata a Montecitorio il 31 gennaio 2015, quando Sergio Mattarella fu eletto presidente: «Adesso i quirinalisti si estingueranno». Quella profezia era legata a un futuro considerato inesorabile. Infatti, si scommetteva che il nuovo capo dello Stato si sarebbe chiuso in un silenzio amletico, scansando dispute e conflitti, interpretando il ruolo nella chiave più minimalista possibile e, insomma, arretrando di molto rispetto agli scatti in avanti dei predecessori, e questo avrebbe lasciato disoccupati un po’ di cronisti. Una premonizione che non ammetteva, per lui, quel darwinismo istituzionale che ha visto gli ultimi inquilini del Colle cambiare pelle dopo un esordio magari dimesso e diventare, loro malgrado, interventisti. Metamorfosi che si è ripetuta più volte per debolezza o vuoti della politica.

E Mattarella, che entra ora nel quinto anno d’incarico, non fa eccezione. Certo: probabilmente non gli piace l’idea che si parli di fase 1 e fase 2 del mandato e ritrovarsi troppo sulla scena. Ovvio, per lui, percepirsi in una linea di coerenza con la «terzietà attiva» che si è imposto da subito, attraverso la metafora dell’arbitro pronto a intervenire solo se necessario per rammentare a tutti le regole del gioco. Ma è un dato oggettivo che il 2018 abbia rappresentato una svolta decisiva per questo Quirinale. Un cambio di passo al quale Mattarella «si è rassegnato», dicono coloro che gli stanno vicino. Il mutamento scatta dopo il voto del 4 marzo, quando il risultato delle urne gli impone di fronteggiare una stagione inedita. Evaporata la maggioranza che lo aveva eletto, composta da partiti collaudati da una lunga esperienza politica, deve fronteggiare un campo di forze populiste e sovraniste che esprimono proposte drogate dall’azzardo e contraddittorie oltre che, specie per i 5 Stelle, con lacune d’esperienza da colmare. È così che lo schivo e laconico giurista i cui ascendenti sono Sturzo, De Gasperi, Moro e il fratello Piersanti (cresciuto quindi nella cultura della complessità) è costretto a farsi più forte e giustifica la trasformazione, collocandola nella logica dei poteri «a fisarmonica» assegnati ai presidenti.

Poco dev’essergli importato sentirsi poi definire da qualcuno «premier ombra» o «badante del governo dei ragazzi», perché convinto di non travalicare confini impropri. E perché aveva ben altro cui pensare, sotto il peso di una crisi plurale che si scaricava anche sul Quirinale: crisi della democrazia rappresentativa, crisi di trasformazione delle forme dell’esercizio della politica per effetto delle nuove tecnologie, crisi del sistema dei partiti. Tutti ricordiamo i torturanti mesi che precedettero il battesimo dell’esecutivo Conte. A tanti è però sfuggito che Mattarella si è preso la responsabilità delle sue iniziative di allora richiamandosi a Einaudi e Gronchi, predecessori di una Repubblica nascente. Evocare il primo gli è servito a ribadire, mentre già si profilava la candidatura di Paolo Savona al ministero dell’Economia, le prerogative del capo dello Stato, che aveva insediato Pella a Palazzo Chigi contro il parere della Dc e rivendicato la scelta dei ministri. Più rivelatrice la citazione del secondo, della cui parabola presidenziale Labriola parlò come di «un interpotere, un punto d’incontro e supplenza, gestore non già di una politica di governo, che non gli compete, ma degli indirizzi fondamentali iscritti nella Costituzione e rispetto ai quali i programmi di governo sono un’espressione». Ecco spiegata la sua filologica ricerca dei precedenti, in maniera che la sua azione non fosse, e non apparisse, debordante. Non ci dovrebbe esser bisogno di tradurre: si riconosceva anche lui nella definizione di Paolo Barile secondo la quale il capo dello Stato è «portatore dell’indirizzo di attuazione e rispetto della Costituzione».

Una funzione «di accompagnamento», nel caso dell’esecutivo gialloverde, visibile in particolare nell’attenzione che Mattarella ha dedicato alla sfera economica. Cioè nell’aver posto come essenziali i vincoli finanziari, perché quello era il problema da lui sollevato fin dall’atto di formazione del governo. Non metteva ostacoli al programma («ho le mie idee ma devo metterle da parte», ripete spesso), purché rientrasse nei limiti consentiti dall’articolo 81 della Carta sull’equilibrio tra entrate e spese. Un’ottica in cui va inquadrato pure il suo no a Savona, che non era un no alla persona, ma il tentativo di avere un’interlocuzione più tecnica che politica al ministero di via XX Settembre. Altro momento rivelatore, quando si scoprì costretto a spiegare in tv, era il 27 maggio, quel che aveva fatto per «agevolare il tentativo di dar vita a un governo», tentativo abortito appunto su Savona. «Nelle prossime ore assumerò un’iniziativa», aveva concluso, rovesciando lo schema e avvertendo dell’imminente incarico all’economista Carlo Cottarelli sotto l’urgenza dello spread e delle inquietudini dell’Unione europea. E lì, dopo che quella minaccia aveva favorito l’accordo in extremis per il varo dell’esecutivo Conte alla vigilia della festa della Repubblica, si è capito che Mattarella era ben altro che un’autorità disarmata. E che dietro la sua icona di mitezza c’era la determinazione di un esperto «traghettatore» deciso a provarle tutte e in cui avere fiducia.

Lo hanno compreso la politica e i cittadini, che non per nulla da allora gli confermano larghi consensi. Quando fu eletto erano consensi sulla fiducia, adesso significano che ha corrisposto alle aspettative. Esempi: il lungo applauso che l’ha accolto alla Scala di Milano il 7 dicembre e l’approvazione ottenuta dal suo messaggio di Capodanno sui «buoni sentimenti». Perfino il guru dei 5 Stelle Beppe Grillo, che aveva brutalmente recriminato sui «troppi poteri» di chi sta al Quirinale, dimenticando che sono poteri di garanzia, da un po’ tace. Come sarà il suo futuro da presidente? Il suo soft power rientrerà nella silenziosa e poco attiva ortodossia? Difficile, perché lo aspettano due transizioni costituzionali complicate, che gli alleati di governo inseguono e sulle quali dovrà vigilare: la democrazia diretta e il federalismo differenziato.

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