30 gennaio 2019 - 22:17

La partita a poker della Lega. No alle trivelle? Sì alle dighe

Le concessioni idroelettriche torneranno alle Regioni, quasi tutte del Nord. Si stimano entrate per circa 300 milioni l’anno solo per la prima fase delle riassegnazioni

di Stefano Agnoli

La partita a poker della Lega. No alle trivelle? Sì alle dighe
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No alle trivelle da una parte, sì agli «espropri» regionali delle grandi dighe dall’altra. Che le misure nel decreto Semplificazioni siano state oggetto di «scambio» politico tra M5S e Lega — come in tanti sostengono — non è dato sapere, anche se è altamente probabile. Di certo, i due emendamenti sono tra quelli passati indenni alla forbice del Senato e approdati alla Camera. Ma mentre sulle trivelle i pentastellati porteranno a casa un mezzo successo dal forte carattere ideologico, con le grandi concessioni idroelettriche che torneranno alle Regioni, la Lega e suoi amministratori locali andranno direttamente all’incasso. Si stimano (lo scrive la relazione tecnica approvata dalla Ragioneria dello Stato) entrate totali per Regioni e Province di circa 300 milioni l’anno solo per la prima fase delle riassegnazioni — 9 miliardi nell’arco di 30 anni — senza contare 60 milioni di euro l’anno in elettricità gratis «da destinare per servizi pubblici e categorie di utenti dei territori interessati dalle concessioni». Insomma, come si leggeva nei manifesti di una decina d’anni fa della Lega Nord — dove Umberto Bossi compariva agitando un pugno chiuso — «da oggi i soldi delle nostre dighe sono della nostra gente».

Un vero affare

Uno slogan elettorale dei tempi di «Roma ladrona»? Mica tanto. Piuttosto una sorta di mini reddito di cittadinanza ben circoscritto. All’incirca la metà delle dighe italiane si trova in Lombardia, Veneto, Friuli e Trentino Alto Adige. Le prime tre Regioni (con il Trentino) sono a guida leghista. Poi segue il Piemonte e molto distanziate quanto a numero di impianti Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria. Nei fatti, con il decreto semplificazioni trasformato in legge, gli impianti torneranno «senza compenso» alle Regioni. Alle società concessionarie sarà riconosciuto un indennizzo. Ma sarà poca roba, stima sempre la relazione tecnica, meno del 5% del valore complessivo dei beni, un esborso che verrà comunque posto a carico dei nuovi entranti. A questo punto le Regioni avranno diverse possibilità. La più proficua potrebbe essere quella di costituire società miste pubblico-private, avviando delle gare per i nuovi partner entro il 2023. Un vero affare, anche se passerà qualche anno: le Regioni si faranno pagare il biglietto di ingresso dai soci privati, poi come concedenti incasseranno i canoni (che verranno rialzati) oltre alle quote di utile delle joint-venture. L’energia idroelettrica è chiamata «oro azzurro»: costi contenuti, materia prima fornita da madre natura e tutto guadagno.

Avvocati pronti ai ricorsi

Ovvio che queste novità abbiano messo in grande agitazione coloro che ne saranno colpiti. Chi sono? Quasi tutte le maggiori società dell’energia del Paese. Enel, Edison, A2A, Cva (val d’Aosta), Erg Renewables, Iren, Acea. Le concessioni Enel ed ex Enel (come Erg e Cva) scadranno nel 2029, ma le altre si esauriscono prima e parecchie sono già scadute. Molti di questi soggetti sono società quotate in Borsa e una delle domande è se dovranno rivedere i valori degli impianti messi a bilancio. Enel Produzione, ad esempio, a fine 2017 li aveva appostati a 2.768 milioni di euro. Che cosa accadrà poi con gli aumenti dei canoni? Margini e utili sono destinati a scendere, come ha calcolato in modo dettagliato Equita Sim. Altrettanto ovvio che numerosi studi di avvocati siano già all’opera, visto che non si escludono ricorsi al Tar sui criteri di indennizzo o alla Corte Costituzionale. Non sarebbe neanche la prima volta che la questione «dighe» arriva alla Consulta. La storia dell’energia idroelettrica in Italia, infatti, è una vera e propria epopea. Anche nel 1933 le dighe erano in concessione con rientro gratuito allo Stato,un po’ come sarebbe da domani. Poi nel 1963 sono passate all’Enel. Nel 1999 con le liberalizzazioni di Bersani si decise di metterle a gara alla scadenza (ma di salvare l’Enel prorogando le sue fino al 2029). Nel 2012 il governo Monti stabilì che, per subentrare, i nuovi arrivati avrebbero dovuto rilevare a caro prezzo i «rami d’azienda», salvando così le aziende. Nel 2013 l’Ue ha messo l’Italia in procedura d’infrazione ritenendo che quella mossa fosse una barriera d’ingresso anticoncorrenziale. E in effetti in questa storia non può mancare neppure Bruxelles, che impone all’Italia di fare le gare internazionali quando ciò non accade in nessuna parte d’Europa. Con il decreto semplificazioni il rischio, non secondario, sarebbe anche quello: consegnare parte dell’«oro azzurro» a investitori stranieri.

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