27 maggio 2019 - 23:01

Un governo «trasferito» al Viminale Di Maio finisce in un vicolo cieco

La prudenza di Salvini: «Occasione da non perdere, un’altra non credo si ripresenterà»

di Francesco Verderami

Un governo «trasferito» al Viminale Di Maio finisce in un vicolo cieco
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La presidenza del Consiglio da ieri si è trasferita al Viminale. Storicamente non è una novità, è stata già sede del governo. Politicamente è il segno del «cambiamento», perché il successo alle Europee consegna a Salvini le chiavi dell’esecutivo, le sorti della legislatura e degli equilibri che verranno. Ma proprio per le dimensioni del consenso, il ministro dell’Interno sa di essere da questo momento il più forte e anche il più esposto. L’ha detto senza perifrasi ai dirigenti del Carroccio nel giorno della festa: «Si apre una fase molto delicata. Abbiamo davanti a noi un’occasione da non perdere, perché un’altra non credo che si ripresenterà. Dunque non possiamo sbagliare neppure una mossa».

La prima, è stata scolastica: il capo della Lega ha posto sul tavolo le priorità del suo partito e ora attende che il capo del Movimento gli risponda. La linea è chiara, ed è stata argomentata da Giorgetti, secondo cui nel governo «la situazione è insostenibile», ma «una rottura da parte nostra verrebbe percepita male dall’elettorato». E allora, per non lasciare impronte su un’eventuale crisi, Salvini offre formalmente a Di Maio disponibilità e collaborazione, che è la tattica migliore per non farlo uscire dall’angolo in cui le urne l’hanno cacciato. L’altro vice premier l’ha capito. Già domenica notte — scorrendo i dati della disfatta e ascoltando le parole del segretario leghista — ha avvisato i suoi che «quello farà di tutto per far ricadere su di noi i fallimenti e tornare a votare». La contromossa del leader cinquestelle, la richiesta di un vertice a Conte, assomiglia a un disperato arrocco, e non a caso è stata subito accolta: Di Maio non ha pezzi per resistere alla minaccia di scacco. Se il Carroccio è l’unico partito che può andare alle elezioni, M5S è l’unico partito che non può andare alle elezioni (anche) per la regola del doppio mandato, che decimerebbe il gruppo dirigente oggi seduto in Parlamento.

Di Maio è al bivio. Accettare che il Viminale diventi la sede della presidenza del Consiglio, subire le richieste da «prendere o lasciare» di Salvini sulla Tav e sull’Autonomia regionale, sarebbe come firmare la resa. Ma rigettarle, equivarrebbe a decretare la fine dell’esecutivo. I leghisti attendono di sapere «quale veleno sceglieranno» i grillini, convinti che non abbiano sponde in Parlamento. Il timore espresso nei mesi scorsi dal loro leader, l’idea cioè che «non si può uscire dal governo per evitare di aprire la strada a un’intesa di M5S con il Pd», era niente più che una messinscena. Zingaretti non vuole e non può aprire ai Cinquestelle, altrimenti la scissione dei democratici avverrebbe prima del previsto: «Piuttosto, meglio votare». Forte di questa situazione, Salvini gronda buonismo dai suoi artigli, spende parole di stima per Conte e per Di Maio, si fa concavo e convesso pur di far «ripartire il governo», ed è abile a non concedere vie di fuga all’altro vice premier. Ha messo nel conto le variabili, compresa quella analizzata già la scorsa estate, quando — disegnando scenari che parevano impensabili — ipotizzò una nuova coalizione legacentrica con un pezzo di centro-destra e un pezzo di M5S. «Perché magari da questa condizione, i grillini possono uscire spaccandosi», si è lasciato sfuggire ieri un autorevole esponente del Carroccio.

Tutte le strade portano al Viminale, se è vero che dall’altra parte Berlusconi è pronto a fare un personale «passo indietro» pur di favorire la ricostituzione della vecchia alleanza. Salvini oggi può scegliere ma non può sbagliare, perché «un’altra occasione così non credo si ripresenterà».

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