vittime di tratta
7 giugno 2018

Prostituzione, perché facciamo finta di niente?

Due giorni e due notti con Segnavia, un ente che aiuta le prostitute in strada, nei loro appartamenti e nei centri massaggi. Per capire chi sono queste donne, come lavorano e come possono rifarsi una vita

Foto di David Prosdocimi Foto di David Prosdocimi

Dalle foto avrete già capito di cosa parla questo articolo. La prostituzione è sotto gli occhi di tutti, anche se di solito scegliamo di ignorarla. In queste pagine, ve la mostreremo da vicino. Per scriverle, ho passato due giorni e due notti con gli operatori di Segnavia, il servizio antitratta della onlus Fondazione Somaschi. Sono stata con loro in strada, nei centri massaggi orientali e nelle comunità dove accolgono chi fugge dallo sfruttamento. Questo è quello che ho visto.

Prostituirsi, in Italia, non è illegale. Sono reati, però, lo sfruttamento della prostituzione, la riduzione in schiavitù e la tratta di esseri umani, cioè l’atto di portare una persona da uno Stato all’altro per sfruttarla lavorativamente o sessualmente. Segnavia, in quanto ente antitratta, si occupa proprio di questo. «Il nostro approccio», spiega la responsabile Isabella Escalante, «si basa sulla relazione con la vittima. Se lei manifesta bisogni di tipo sanitario o burocratico, la aiutiamo. Facciamo lo stesso se il suo bisogno è uscire dalla tratta. Ma può anche darsi che non voglia, perché non ha alternative o non si ritiene sfruttata. Noi non possiamo che rispettare la sua decisione. Ma continuiamo ad aiutarla in tutto il resto: per noi, ne vale sempre la pena». Prima che chiedano aiuto, però, passano mesi, perché le ragazze «hanno imparato a non fidarsi di nessuno. Ci chiedono spesso: “Cosa volete da me?”. È dura spiegargli che vogliamo solo essere d’aiuto». Tutte difficoltà che si riflettono nei numeri. Nel 2017, Segnavia ha incontrato 690 donne. Circa il 60% ha chiesto aiuto di tipo sanitario o burocratico. Meno del 5% ha lasciato la strada. Esiste prostituzione senza sfruttamento? «C’è, ma il 90% delle ragazze che incontriamo sono sfruttate», risponde Escalante.

Visito il Pronto Intervento, dove le vittime di tratta passano le prime settimane dopo aver lasciato la strada. A vegliare su di loro, oltre alle educatrici, c’è padre Ambrogio, fondatore della prima unità di strada di Fondazione Somaschi. Il Pronto Intervento impone una rottura forzata con la vita precedente delle ragazze, che non possono avere un telefono privato, né uscire da sole. «Alcune, all’inizio, la vivono come una prigione, benché siano qui per scelta», spiega Valeria Budau, educatrice. «Molte sono attratte dalla prospettiva del permesso di soggiorno riservato a chi aderisce al percorso antitratta. Poi maturano consapevolezza: hanno, spesso per la prima volta, l’occasione di pensare a cosa vogliono davvero per se stesse».

Lezioni di italiano in comunità. Foto di Luca Meola Lezioni di italiano in comunità. Foto di Luca Meola

LA MIA PRIMA uscita in strada è con l’operatrice Carolina Jimenez e un volontario, Giampiero, lungo la statale Paullese, che collega Milano e Cremona. Conosco la zona. Ho sempre saputo che pullula di prostitute, ma non ci ho mai fatto caso come oggi. Per gli operatori, quelli delle ragazze sono per lo più volti già noti. Ma di nuove ne arrivano di continuo. Ne incontriamo subito una, nigeriana, seduta a bordo strada. Quando ci presentiamo ci guarda con due occhi enormi. Dimostra al massimo 20 anni e ha un figlio piccolo: la sua foto campeggia sullo schermo del cellulare che tiene in mano. Accetta il biglietto di Segnavia, su cui si legge, in inglese: «Chiamaci se hai bisogno di visite mediche gratuite, anche senza documenti, o di essere ascoltata, qualunque sia il tuo problema». Sotto, il numero di cellulare dell’unità di strada. A febbraio un biglietto simile è stato dato anche a Erika, una 25enne dell’Europa dell’Est. Pochi giorni fa lo ha usato per telefonare, dal cellulare di un cliente, e chiedere aiuto a Carolina in un italiano stentato. Oggi è agitatissima. Ripete: «Problemi, problemi». Scoppia a piangere. Poi arriva una pattuglia dei Carabinieri. Appurano che siamo di un ente antitratta, poi, prima di andarsene, ci raccontano di un’auto che passa spesso davanti alla piazzola di Erika. Probabilmente è il suo fidanzato/sfruttatore: una sovrapposizione comune per molte ragazze dell’Est. Con difficoltà capiamo che Erika è incinta. Teme per la sua vita perché il suo “fidanzato” è violento. Vuole andarsene, ora. La prassi, di norma, prevede lunghi colloqui prima di allontanare una ragazza dalla strada. Ma è un’emergenza, così Carolina si attiva per trovare un posto per Erika in una comunità.

Nell’attesa, continuiamo il giro. Passiamo da una serie di ragazze nigeriane, poi da Olga, che è in vena di chiacchiere: «Secondo voi le nere si offendono se gli regalo qualche mio vecchio abito? Poverine! Gli esami? Li ho fatti, ci tengo alla salute, uso anche due preservativi alla volta». Giampiero cerca di spiegarle che non è una prassi sicura. Lì accanto c’è Anja, 20 anni: ha abortito da una settimana, è già in strada. Poi si avvicina un cliente e ce ne andiamo. Intanto, ci hanno comunicato che c’è un posto per Erika in una comunità di Segnavia. La andiamo a prendere. Con sé ha solo una borsetta e un sacchetto con dentro un profumo, un cardigan, le foto dei due bambini che la aspettano nel suo Paese. Nel tragitto verso Milano succede una cosa che sembra il frutto della fantasia di uno sceneggiatore: Erika mi prende la mano e se la porta sulla pancia, poi rovista nel suo sacchetto, ne estrae dei preservativi e li getta dal finestrino. Giunti in comunità, assisto al momento in cui viene affidata all’educatrice di turno quella sera, Martina Ziglioli. Il colloquio è breve (in assenza di un mediatore linguistico, è difficile fare di più), ma l’abbraccio con cui Erika saluta Carolina dura a lungo.

Foto di David Prosdocimi Foto di David Prosdocimi

LA SERA accompagno David Prosdocimi – operatore a Segnavia da sette anni e autore di molte delle foto che vedete in queste pagine, compresa quella di copertina – nell’unità di strada a Milano, in zona Est. Mi anticipa che incontreremo soprattutto albanesi, romene e nigeriane, ma che in strada, qui, ci sono anche italiane (poche, spesso tossicodipendenti), uomini (pochi), transessuali (molte). Poi mi spiega che a Milano la prostituzione è più redditizia che sulle provinciali e, per questo, le ragazze sono molto sorvegliate. «Una volta», racconta, «sono arrivati con un’auto e hanno portato via quella con cui stavamo parlando sotto i nostri occhi». Le prime ragazze che incontriamo sono dell’Est, una bionda, più navigata, e una mora. La prima impedisce alla seconda di prendere il biglietto di Segnavia. Poco dopo andiamo da Jola, che è appena scesa dall’auto di un cliente. È magrissima. David cerca di informarsi sulla sua salute, ma le squilla il cellulare e ci fa capire che dobbiamo andarcene. Poi chiacchieriamo con Kyoshi, una signora cinese che dimostra 45 anni. Parla a lungo del figlio trentenne, in Cina: lo mantiene lei. David accenna al fatto che le cinesi in strada sono tutte coetanee di Kyoshi: le più giovani, anche minorenni, si prostituiscono in casa.

Ci spostiamo in una zona disseminata di hotel dall’aspetto squallido dove molte ragazze portano i clienti. Lì vicino incontriamo prima un gruppo di chiassose nigeriane – «C’è voluto un anno per ottenere la loro fiducia, ma ne è valsa la pena: sono venute tutte dal medico con noi» – poi Paola, che lavora da più di dieci anni. Accenna, con pudore, a un problema di salute. David mi spiegherà poi che ha un tumore. L’ultima ragazza che incontriamo ha una storia esemplare. La riporto così come ce l’ha riassunta lei, tra una boccata di sigaretta e un’altra: «Sono in Italia da tredici anni, ho una bimba di due. Ho perso il lavoro. Quando hai una figlia non puoi mica andare a rubare, no?». Mentre ci dirigiamo verso casa parliamo dell’indotto, enorme, della prostituzione: affittacamere, hotel, c’è persino un signore che percorre le strade dove lavorano le ragazze e vende loro la biancheria. E poi ci sono i siti su cui i clienti recensiscono le prestazioni e quelli con gli annunci delle ragazze che lavorano in casa.

È IL MONDO invisibile della prostituzione a porte chiuse, che approfondisco la mattina dopo con Carolina e Carmen Abbamonte, una tirocinante. Loro passano in rassegna i siti alla ricerca di annunci nuovi per poi contattare una per una le ragazze. Molte delle foto che accompagnano le inserzioni sono dozzinali, ma non mancano quelle di qualità professionale. Anche dietro a queste ultime si nasconde, però, una vita ben poco patinata. «A volte penso che le ragazze in appartamento sono persino più sfruttate di quelle in strada: spesso lavorano giorno e notte», commenta Carolina. Il resto della mattinata lo dedichiamo ai centri massaggi orientali. Ce ne sono, ormai, moltissimi, in tutta Italia. Quasi tutti celano un giro di prostituzione. Citofoniamo al primo della lista, ci apre una signora cinese sui 40 anni, sospettosa, che si presenta come Luce. Accetta il nostro volantino, poi la porta inizia a chiudersi come se qualcuno la stesse spingendo da dietro. Ce ne andiamo. Un copione, mi spiegano, ricorrente. Giriamo altri cinque centri, ma solo in uno ci fanno entrare: dentro, vedo due donne con abiti cortissimi che ci guardano senza dire una parola. Poco dopo, squilla il cellulare dell’unità di strada: dall’altro capo c’è Luce, vorrebbe aiuto per fare gli esami del sangue.

Foto di David Prosdocimi Foto di David Prosdocimi

NEL POMERIGGIO, insieme alla responsabile dell’housing sociale Cristina Facchinetti, vado a conoscere tre donne che sono uscite dalla tratta da un po’ e oggi vivono in case protette concesse a titolo gratuito. Uno step temporaneo che serve per dar loro il tempo di diventare autonome, costruendo o affinando competenze linguistiche o lavorative. La prima è Prudence, una ragazza nigeriana, mamma di un bimbo di due anni. È arrivata a Segnavia su segnalazione dei servizi sociali quando aveva già smesso di prostituirsi, ma non di pagare – con lo stipendio del marito, che vive con lei – il debito contratto con la sua sfruttatrice (in gergo, madame) per venire in Italia. Il motivo è che teme per i suoi familiari rimasti in Nigeria. «Se mi chiedi quanta paura ho da uno a 100, rispondo 120. Ma voglio dare a mio figlio un futuro in Italia», racconta. E per te, chiedo, cosa sogni? «Voglio imparare un mestiere. Ho capito che posso essere madre e avere un lavoro allo stesso tempo».

Più tardi vengo accolta in un appartamento dove vivono cinque donne diverse per età, trascorsi, nazionalità. Due di loro sono (ex) vittime di tratta: Zainab, nigeriana, 24 anni appena compiuti, e Shui, cinese, quasi sessant’anni. Lei ha denunciato il suo sfruttatore: una scelta che fanno in poche. Oggi, però, si sente in trappola: da una parte, è terrorizzata perché convinta che la comunità cinese di Milano sappia che lei ha fatto la spia; dall’altra, non riesce a immaginare la sua vita altrove e rifiuta di cambiare città. Chiacchiero con Zainab, che tra poco sosterrà l’esame di italiano: «Ho fatto un corso, ma mi ha aiutato anche la tv. All’inizio guardavo i cartoni animati perché erano gli unici programmi che capivo».

LA MIA ULTIMA SERA con Segnavia la passo con David e una tirocinante, Anna, sulla provinciale Binasca, a sud di Milano. È una strada squallida, dove tante ragazze – soprattutto le nigeriane, costrette ad accontentarsi delle piazzole peggiori – sono circondate dalla sporcizia e lavorano illuminate solo da fuocherelli che, al passare dei tir, spargono braci ovunque. Ed è un posto dove c’è molto violenza. Anni fa qui se l’è vista brutta anche Marika, la prima ragazza che conosco stasera: David l’ha dovuta «raccogliere col cucchiaino» perché era stata picchiata. Oggi, però, sembra allegra. Ci racconta di un cliente innamorato di lei e di un uomo che guadagna oltre 3mila euro al mese facendo da taxi privato per sei ragazze. «Dovresti scrivere un libro», le dice David. «Hai ragione», risponde, «perché questa è una vita schifosa. Ma facendola conosci tante teste».

Foto di David Prosdocimi Foto di David Prosdocimi

Nel corso della notte mi indicano il punto dove, poco tempo fa, due nigeriane e un magrebino si sono picchiati («Avevano i segni dei morsi addosso»); l’hotel dove alcune ragazze portano i clienti («Il personale non chiede i documenti»); una bionda che controlla un gruppo di giovani connazionali («Si è rifatta i denti: glieli hanno pagati le ragazze»). Vedo anche molti clienti, che mi fanno tornare in mente una frase di Escalante: «Se non ci fosse la domanda, non ci sarebbe neanche l’offerta». Una banale legge di mercato. La stessa che fa sì che tre ragazze ci chiedano se siamo stati «da quelle giovani, nuove»: non è solidarietà femminile, ma un tentativo di informarsi sulla concorrenza. Ogni notte sulla Binasca è una guerra tra povere.

Alla fine incontriamo davvero le nuove arrivate. David e Anna le hanno conosciute qualche settimana fa. La prima si fa chiamare Analisa, sembra minorenne e, dalla pancia, incinta. Dice che tra poco andrà a trovare suo nonno, nel suo Paese: «È lui che mi ha cresciuta. Però non è colpa sua se sono così, ma della mia testa». Il lavoro, aggiunge, non le piace. Non c’è tempo per dire di più: è arrivata un’auto da cui siamo, evidentemente, osservati. Ce ne andiamo dopo averle ricordato che può chiamare Segnavia per qualunque motivo. Poco dopo ci fermiamo da Debora, che ci racconta con gli occhi lucidi dei suoi figli, di cui una disabile, e del marito, che è in Italia con lei ed è «geloso» e «duro». David la incalza: «Eppure è lui che ti fa lavorare qui». Lei nega: «No, sono io che voglio, servono i soldi per i bambini». Poi accenna alla sorella. «È incinta. L’avete vista? È là», e indica la direzione da cui proveniamo noi: dev’essere Analisa. Le squilla il cellulare. È lui: probabilmente è nei dintorni e ci ha visti. «Digli che siamo quelli del dottore», suggerisce David. Ma è meglio che ce ne andiamo. La salutiamo dicendole: «Stai attenta». Lei annuisce. Noi torniamo a casa.

Questo articolo si sarebbe potuto chiudere così. Ma poco prima di finirlo ho saputo che Erika, la ragazza che abbiamo portato via dalla Paullese, è ancora in comunità. Non era scontato. Tante restano intrappolate per tutta la vita in situazioni come quella di Debora, incapaci di staccarsi da chi le tiene in pugno. Lei no. E sono contenta di poter chiudere con la sua storia: quella di un’alternativa, difficile ma concreta, alla strada.
Un’ultima cosa: il numero verde antitratta è 800 290290. Si può usare per segnalare, in forma anonima, situazioni di sfruttamento. Segnatevelo, e, se vedete qualcosa, non fate finta di niente.

NB - I nomi delle donne sono stati cambiati per tutelare la loro privacy e la loro sicurezza

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