i telefilm nell’era del disordine
15 giugno 2018

Le nuove fiction spiegano
il mondo

Le serie tv mostrano come agisce il potere e come si muove la geopolitica. Raccontano il caos in Medio Oriente (Fauda), la Gran Bretagna alle prese con le migrazioni (Collateral), l’America di Trump (The good fight) e la confusione della politica estera francese (Le Bureau)

C’ERA UNA VOLTA l’idealismo di West Wing, il capolavoro di Aaron Sorkin con Josiah Bartlet (Martin Sheen) archetipo del presidente liberal e giusto alla guida della superpotenza vittoriosa in un mondo che aveva detto addio alla Guerra fredda. Una decina d’anni dopo siamo su un altro pianeta: nello Studio Ovale immaginato da House of Cards c’è Frank Underwood (Kevin Spacey, fino allo scandalo #metoo), con la sua sete di potere e la sua insofferenza verso la democrazia («sopravvalutata»). Tenere salda la fiducia nelle istituzioni, fuori e dentro il racconto televisivo, è sempre più difficile. È Underwood o Trump a dire: «Potrei mettermi a sparare in mezzo alla Fifth Avenue e non perderei neanche un elettore?» (spoiler: The Donald). Buoni e cattivi si confondono, alleati e nemici si scambiano posizioni. Accade nella realtà, accade nelle serie, che come i feuilleton dell’800 sono il termometro dei dibattiti che attraversano le nostre società, specchio di paure e speranze. Il politologo francese Dominique Moïsi, che al suo famoso saggio La geopolitica delle emozioni ha fatto seguire una riflessione su La geopolitica delle serie, ci vede riflessa la fascinazione per il caos, a volte la nostalgia per l’ordine (Downton Abbey, The Crown), la fine del secolo americano, la minaccia russa.

INTRECCI PERFETTI per un mondo non più bipolare ma multipolare, le serie mostrano una potenza di analisi nuova e raffinata. E grazie all’internazionalizzazione delle piattaforme, basta un clic per catapultarsi nelle vicende di Paesi vicini e lontani, magari solo orecchiate al tg della sera (l’ex presidente brasiliano Lula, ad esempio, è stato arrestato proprio nei giorni delle polemiche su O Mecanismo, serie Netflix ispirata in parte allo scandalo di corruzione che l’ha coinvolto). Fauda (caos, in arabo), online sempre su Netflix, è una serie ambientata nella West Bank e racconta di una squadra sotto copertura della Difesa israeliana a caccia di un terrorista ritenuto morto, Abu Ahmad, in realtà vivo e intento a preparare un gigantesco attacco. Nonostante autori e punto di vista siano israeliani, i palestinesi, anche quelli coinvolti nella lotta armata, non sono descritti in maniera caricaturale: li vediamo nel quotidiano, nel privato, entriamo nelle loro dinamiche familiari. Tanto che Fauda è stata attaccata da entrambe le parti: da chi la trova troppo tenera nei confronti di Israele e da chi in Israele è insorto per quei manifesti in arabo («Preparatevi» o «Il caos sta per cominciare») che annunciavano l’arrivo della seconda stagione. «La gente si sente a disagio. Ed è quello che voglio, voglio mostrare quanto è complessa la realtà», ha raccontato uno degli sceneggiatori, Avi Issacharoff, ex soldato e giornalista. Una delle scene più forti è quella del dialogo tra Abu Ahmad e l’infiltrato israeliano, Doron Kabilyo. Doron gli sta mentendo, si è finto volontario per un attacco kamikaze, ma tutto quello che dice è la verità – «Voglio vendicare mio cognato, l’hanno fatto saltare in aria davanti ai miei occhi» – e rispecchia in modo uguale e contrario il vissuto e i pensieri del nemico che ha davanti, tanto da convincerlo. «Lo so che non hai paura, dividi il letto con la morte», dice Ahmad, e sta parlando anche di sé. Come quando Doron spiega di aver abbandonato la famiglia, e Abu Ahmad risponde «Sono sicuro che ti amano», cercando di consolare se stesso.

QUELLO che vediamo in Fauda non è solo il conflitto, ma il prezzo psicologico di chi vi è coinvolto, una psicosi che avvolge alleati e nemici. Il thriller geopolitico e la spy story ci insegnano da sempre che è meglio non fidarsi di nessuno, e che il gioco dei travestimenti mette in crisi il sistema di valori del protagonista, e dunque anche dello spettatore. Adesso però questo gioco è diventato frenetico e isterico. È la confusione dei “buoni”, in fondo, il vero punto di forza del nemico: così si dubita di tutto, anche di se stessi. Non è più tempo del granitico Jack Bauer di 24, la figura di riferimento è Carrie Mathison di Homeland, vera serie apripista. Ne è influenzata anche la francese Le Bureau (Sky Atlantic). Guillaume “Malotru” Debailly (Mathieu Kassovitz) arriva a Parigi alla guida della Dgse, la Cia francese, dopo aver trascorso sei anni sotto copertura in Siria. Ha i suoi misteri, le sue ferite, un amore complicato e segreto. Sin da come si muove lo si vede cercare disperatamente di mettere ordine nel caos. Nelle tre stagioni fin qui andate in onda lo spettatore viene condotto sui fronti di guerra di questi anni, dalla Siria all’Iraq, con una credibilità lodata anche dal grande islamologo Gilles Kepel. Mentre all’inizio della quarta Kassovitz, ricercato e abbandonato, troverà rifugio a Mosca dove entrerà in contatto con l’Fsb (l’ex Kgb).Le Bureau ci parla dello sbando della politica estera occidentale, della assenza di una visione strategica, di burocrazia. Malotru e i suoi passano tanto tempo alle loro scrivanie. Le operazioni sembrano spesso avvitarsi, segnano l’impotenza degli Stati e delle istituzioni. La crisi di queste organizzazioni e quella degli esseri umani al loro interno viene raccontata anche dal thriller Collateral, serie BBC online su Netflix, creata da David Hare. Tutto parte dall’omicidio di un immigrato, freddato mentre consegnava pizze. Era un terrorista? O solo un clandestino che sapeva troppo dei traffici illeciti nel Mediterraneo? Nell’indagine restano invischiati una poliziotta tenuta in scarsa considerazione, una donna soldato affetta da stress post-traumatico, un politico laburista indeciso, una donna prete troppo presa dai propri problemi privati, alcune spie doppiogiochiste. Insomma, ci sono tutte le classiche figure del thriller geopolitico, ma nessuna sembra ben salda nel proprio ruolo. Sono quasi tutte donne: rispetto all’Italia, negli altri Paesi c’è più parità in ogni genere di racconto. E forse, dopo Homeland, le figure femminili rendono meglio certe sfumature. Il clima è quello dell’Inghilterra della Brexit, e dell’Europa incapace di affrontare la crisi migratoria. Entriamo nei centri di detenzione, tanto asettici quanto disturbanti. Scopriamo quali affari nasconda la tratta degli esseri umani. Un tema oggi centrale diventa così motivo di riflessione per il pubblico. Alla fine, la poliziotta (Carey Mulligan) risolve il caso, e ottiene l’unica vittoria che conta: un visto per le sorelle del fattorino. Perché in un mondo nel quale dominano fake news e post verità, tocca ripartire dalla difesa del proprio ruolo, anche nelle piccole battaglie, per fare la differenza. Se c’è un personaggio che più di ogni altro incarna questo doppio registro, da un lato la nostra confusione – viviamo in una società post traumatica, dice uno dei creatori di Fauda –, dall’altro la necessità di una nuova determinazione, è la straordinaria Diane nel legal drama The Good Fight (la seconda stagione in autunno su TimVision). Scossa dalla vittoria di Trump e da una politica sempre più improbabile, vuole sottrarsi alla lotta. Inebetita, confusa, paralizzata, finisce anche per fare uso di droghe. Non sa più distinguere realtà e finzione: Trump tiene un maiale alla Casa Bianca? (Succede anche a noi: Raggi ha davvero detto che userà le pecore per tosare l’erba a Roma?). Forse non importa. Quello che importa, capisce Diane, è difendere se stessa, i suoi clienti, i suoi cari dalla follia generale. Preservare un angolo sano. La Legge e una ritrovata determinazione aiutano.

TALVOLTA poi la confusione si sposa bene con la fantapolitica o il mistery, e la mano di grandi scrittori. Così su Netflix è arrivata Occupied scritta da Jo Nesbø: ha irritato il Cremlino immaginando una Norvegia che, dopo aver annunciato la fine dell’estrazione del petrolio, subisce l’occupazione “di velluto” dei russi con il benestare (già) dell’Europa. In queste settimane è toccato invece a Niccolò Ammaniti con Il Miracolo (Sky Atlantic) ingarbugliare ancora di più i rapporti tra realtà e suo doppio immaginario. E così, mentre nel dibattito pubblico emerge il tema euro per via delle prese di posizione del nascente governo M5S- Lega, nella serie un primo ministro (Guido Caprino) spiega in tv le conseguenze nefaste dell’uscita dalla moneta unica causa referendum. Ma deve anche fronteggiare ben altro dilemma: il ritrovamento di una statua della Madonna che versa lacrime di sangue. «Non capisco», dice. «Ho bisogno di capire», continua. La perdita di punti fermi nella realtà e la crisi di una certa leadership tradizionale si colorano di sfumature metafisiche. Senza svelare troppo il finale della serie, il risultato del referendum viene determinato da un’ondata emotiva e non certo da una riflessione razionale dell’elettorato. Una lettura perfetta della situazione politica attuale.

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