reportage
28 maggio 2018

Balcani d’Europa: che sarà di Sarajevo?

I Balcani occidentali bussano alla porta dell’Unione Europea. Ma la Bosnia Erzegovina ha ancora molta strada da fare. Divisioni etniche, cattiva amministrazione, corruzione, una drammatica disoccupazione giovanile: sono tanti gli ostacoli da superare. Ma Sarajevo e il resto del Paese hanno molto sofferto: meritano la nostra attenzione e il nostro aiuto

Alcuni giovani sul Bastione Giallo, che offre una visione dall’alto su Sarajevo (foto di Ziyah Gafic)

AMINA HA 19 ANNI, è nata in una Sarajevo libera. A fine giornata, sale allo Žuta tabija, il Bastione Giallo, per godersi il tramonto dall’alto sulla città, che da qui si mostra nella sua indifesa bellezza. La capitale della Bosnia Erzegovina è una lingua di terra lunga e stretta, tagliata dallo scorrere della Miljacka, assediata dalle colline e dalle montagne che le tolsero la vita per 1.425 giorni, dal 5 aprile 1992 – ventiquattr’ore prima che la comunità internazionale riconoscesse l’indipendenza del Paese – al 29 febbraio 1996. Il più lungo assedio nella storia della guerra moderna, ad opera delle forze serbo-bosniache. Terra di minareti, cattedrali cattoliche, chiese ortodosse e sinagoghe, con le tombe cresciute in ogni spazio libero: a picco sul vivace bazar ottomano della Baščaršija, sulle case ancora bucate, sul Municipio, ex Biblioteca Nazionale che nel ’92 bruciò con dentro due milioni di libri, sulla modernità inseguita, interrotta, ricostruita. Sarajevo contiene infinite città; porta in eredità imperi, culture millenarie, distruzione e bellezza; immagina il destino d’Europa.
È tempo di Ramadan, anche per Amina, bosniaca musulmana. I ragazzi alle nostre spalle preparano tavoli e luci per la fine del digiuno. «È la politica che ci separa: noi non siamo divisi», dice. «L’Unione europea cambierà questo sistema, risolverà i problemi che da soli non riusciamo a risolvere».

NEL 1992, MENTRE VENIVA FIRMATO IL TRATTATO di Maastricht, in Bosnia scoppiava la guerra e la Jugoslavia si disintegrava. Oggi i Balcani occidentali bussano alla porta dell’Unione europea, che qui vuole ridisegnare i suoi confini, che desidera e sostiene la stabilizzazione dell’area, di cui è il principale partner commerciale con un volume d’affari annuo di 43 miliardi di euro. Montenegro e Serbia hanno una prospettiva d’ingresso 2025; Macedonia e Albania sono candidati ufficiali e presto inizieranno i negoziati; Bosnia e Kosovo restano soltanto potenziali candidati. A febbraio la Commissione europea ha lanciato una nuova «Strategia per i Balcani», per rafforzare la cooperazione e sostenere la trasformazione dei Paesi. La Bosnia è stata indicata come potenziale candidato durante il vertice di Salonicco nel 2003. Solo nel 2016 ha fatto domanda di adesione e nel febbraio scorso ha consegnato le risposte al questionario della Commissione: oltre 3mila domande sulla compatibilità del sistema economico, giuridico, sociale bosniaco agli standard europei.

In primo piano, i resti delle caserme dell’esercito jugoslavo distrutto nel ‘92. Sullo sfondo la sede del quotidiano Dnevni avaz, a Sarajevo (foto di Ziyah Gafic) In primo piano, i resti delle caserme dell’esercito jugoslavo distrutto nel ‘92. Sullo sfondo la sede del quotidiano Dnevni avaz, a Sarajevo (foto di Ziyah Gafic)

«ERAVAMO PIONIERI DI QUESTA INTEGRAZIONE e assolutamente sicuri che a quest’ora avremmo fatto parte della Ue. Quindici anni dopo, questo è il risultato. La speranza rimane, ma questa enormità di tempo non è accettabile. Ci sentiamo abbandonati». A parlare è Ivan Barbalić, nato a Sarajevo nel 1975, ex ambasciatore in Russia, Permanent Representative alle Nazioni Unite ed ex alunno del Master europeo in Democrazia e Diritti umani dell’università di Sarajevo (Erma), cofinanziato da Ue e Italia. Lo incontro insieme a quattro attuali studenti: Sandina Bošnjak, Lamija Tiro, giovane consigliera comunale, Dino Pehlić e Seila Muhic, nata in Bosnia, cresciuta a Brescia come rifugiata di guerra, ora tornata a Sarajevo. «Non ci sentiamo abbandonati, siamo abbandonati», dicono. «I Balcani occidentali dovrebbero entrare tutti insieme nell’Unione. La Bosnia ha paura di rimanere come un’isola, di essere l’unico Paese a non far parte del club europeo. Non abbiamo alternative: la differenza è tra rimanere nello stesso sistema corrotto di oggi o cambiare».

SALENDO IN VIA LOGAVINA si arriva al Museo dell’Infanzia di Guerra, nato nel 2017, vincitore del premio “Museo europeo dell’anno 2018”. «È la prima esposizione al mondo a dedicarsi interamente al racconto di guerra dal punto di vista dei bambini», mi spiega, tra gli oggetti d’infanzia all’epoca del conflitto bosniaco, Amina Krvavac Sardaro, ex bambina di guerra, oggi Executive director del Museo. C’è un biglietto di auguri conservato per vent’anni da Azra, mia coetanea, i disegni dei personaggi Disney fatti dalla sorella di Selma prima di morire sotto le macerie della sua casa, uno stereo con cui Vedran continuava ad ascoltare la musica del mondo. «Durante la guerra, la vita va avanti. Gli oggetti che ci hanno donato raccontano la loro resilienza e anche l’integrazione tra etnie che la guerra cercava di dividere». Amina è nata e cresciuta a Bugojno, Bosnia centrale, in un agglomerato di palazzi dove vivevano insieme bosgnacchi (bosniaci musulmani), serbi e croati. «Sarajevo è unita. Lo era prima, durante e dopo l’assedio. Ma non tutto il Paese è così. Mostar è ancora una città completamente divisa tra musulmani e cattolici. In altre città ci sono quelle che chiamiamo “due scuole sotto un tetto”: un piano ai bosgnacchi, un altro ai croati, due sistemi scolastici diversi, con differenti versioni della storia. L’Unione europea dovrebbe imporsi di più: la società, che nell’integrazione vede l’unica opportunità per cambiare il Paese, sta diventando euroscettica».

Una donna anziana affacciata alla finestra della sua casa a Sarajevo (foto di Ziyah Gafic) Una donna anziana affacciata alla finestra della sua casa a Sarajevo (foto di Ziyah Gafic)

«PRIMA DELLA GUERRA» O «DOPO LA GUERRA» è l’orizzonte temporale di tutti gli abitanti di Sarajevo. «È colpa di Bruxelles» o «è colpa del governo bosniaco» sono le prese di posizione in merito all’ingresso, lento, del Paese nel «club europeo». Se si mettono in fila, 15 anni sono un periodo di tempo lunghissimo per uno Stato di soli 26 anni. Ma la Bosnia Erzegovina ha ancora molta strada da fare prima di poter diventare uno stato membro. «La divisione è il progetto», sintetizza Zlatko Dizdarević, giornalista, già direttore del quotidiano Oslobodjenje (Liberazione) di Sarajevo durante la guerra, ex ambasciatore di Bosnia in Croazia, Giordania, Iraq, Siria e Libano. Lo incontro al café Parkusa Sarajevo, su una delle arterie principali del centro città, la Maršala Tita. «La Bosnia ha avuto la possibilità di diventare un Paese normale dal 2005, invece la Costituzione non è stata cambiata». Con gli Accordi di Dayton che hanno posto fine alla guerra, il Paese è stato spartito in Federazione di Bosnia ed Erzegovina, croato-musulmana, e Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina. La Presidenza è composta da tre membri, ciascuno per uno dei tre popoli costitutivi: i bosgnacchi (bosniaci musulmani), i serbi (ortodossi) e i croati (cattolici). Un sistema basato sul livello delle nazioni, delle etnie, delle religioni. «Le stesse persone che hanno provocato la guerra sono i leader politici di oggi», mi spiega. «La tattica per mantenere il potere è dividere la società». Da questo sistema imperfetto dipende l’economia di un Paese con il tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti al mondo, in cui il 56% dei lavoratori sono dipendenti pubblici, «e se non sei membro di uno dei tre partiti nazionalisti al potere, non puoi ottenere un impiego pubblico».

CHIUNQUE NON S’IDENTIFICHI, come Dizdarević, in un’etnia, ma semplicemente come bosniaco-erzegovese, per la Costituzione è “altro”, non ha diritto a essere eletto. È chiaro che la Bosnia ha ancora molto da fare, ma secondo Dizdarević l’Unione europea non sta facendo abbastanza: «Bruxelles è bloccata sulla questione della sicurezza. Crede non ci sia alternativa a questa maggioranza senza destabilizzazione dell’area. Non ha il coraggio di fare le cose. L’attuale situazione in Bosnia e la scarsa presenza dell’Ue non fanno altro che aprire le porte all’influenza di Turchia, Russia e del fondamentalismo islamico».

La nuova funivia che collega la città di Sarajevo al monte Trebević è stata inaugurata lo scorso 6 aprile. Era stata distrutta nei primi giorni della guerra nel ‘92 (foto di Ziyah Gafic) La nuova funivia che collega la città di Sarajevo al monte Trebević è stata inaugurata lo scorso 6 aprile. Era stata distrutta nei primi giorni della guerra nel ‘92 (foto di Ziyah Gafic)

POTREMMO FARE DI PIÙ? «Molti bosniaci pensano che Bruxelles debba imporre a Sarajevo i cambiamenti necessari, o che debba accettare il Paese così com’è, abbassando i suoi standard. Ma non è così che funziona: non offriamo la membership come un regalo, né possiamo prendere decisioni per il Paese. Possiamo invece sostenerlo, usare il processo d’integrazione per fissare i parametri necessari alla sua normalizzazione», spiega l’ambasciatore e Capo della delegazione Ue in Bosnia Erzegovina, lo svedese Lars-Gunnar Wigemark, che incontro nella sua residenza a Sarajevo, dove vive con la famiglia, un cane e un gatto. «Abbiamo fatto alcuni errori: ci siamo concentrati per molto tempo, con i politici locali, nell’obiettivo di correggere gli Accordi di Dayton e cambiare l’assetto costituzionale del Paese. Ci fummo vicini nel 2006, poi la riforma non passò per soli due voti in Parlamento, il governo iniziò ad avere difficoltà a soddisfare i nostri requisiti e nel 2008 arrivò la crisi finanziaria. In due anni il Paese passò dall’essere in prima linea nell’accesso all’Ue a non esserlo più». Oggi l’approccio è cambiato: «Dovevamo trovare una via alternativa per aiutare la Bosnia a cambiare. Dobbiamo concentrarci prima sull’economia, sulle riforme sociali, sul ruolo della legge, sulla pubblica amministrazione; poi sulla riforma costituzionale. Abbiamo scritto una reform agenda nel 2015 e il governo l’ha accettata: gli accordi sono ripresi e la Bosnia ha fatto domanda di adesione. Il questionario era un primo test reale: il Paese è stato capace di accordarsi su 3.000 risposte». Quando arriverà la decisione da Bruxelles? «La Commissione porrà alcune richieste di chiarimento, poi formulerà un’opinione sul Paese entro fine anno o al massimo a inizio 2019».

Una sposa all’uscita del municipio di Sarajevo (ex Biblioteca Nazionale, distrutta dalle granate nel ‘92) (foto di Ziyah Gafic) Una sposa all’uscita del municipio di Sarajevo (ex Biblioteca Nazionale, distrutta dalle granate nel ‘92) (foto di Ziyah Gafic)

NEL CENTRO DELLA VECCHIA SARAJEVO l’odore forte del ćevapčići, carne macinata grigliata, si unisce a quello acre e dolce dei narghilé. Le insegne della Coca Cola spuntano accanto all’ingresso della medresa, la scuola religiosa islamica. Alzando gli occhi, ai minareti si affiancano le cime dei grattacieli della Nuova Sarajevo. Adem, 21 anni, si sta rimettendo le scarpe lasciate sui gradini della grande Moschea di Gazi Husrev-beg. È nato e cresciuto nel nord del Paese, dove «la maggioranza è serba: là noi musulmani ci sentiamo ancora insicuri». Studia alla Facoltà di Studi Islamici nella capitale. «Siamo i più poveri tra i Paesi balcanici: entrare nell’Ue sarà positivo per la mia generazione. Ma probabilmente aumenteranno le persone che se ne andranno dalla Bosnia» (oltre 200mila in 20 anni).
Amela Beca, che quando l’assedio è iniziato aveva nove anni e ricorda le scuole improvvisate da insegnanti volontari nelle cantine dei palazzi, oggi è professoressa al Primo Ginnasio di Sarajevo, il più antico liceo di Bosnia. «I nostri studenti, come la maggioranza della popolazione, nell’Europa vedono libertà e possibilità. Ci vorrà tempo, ma entreremo, come farà tra pochi anni la Serbia. I Balcani torneranno insieme, come nella Jugoslavia, ma senza le tensioni di allora. Altrimenti resteremo da parte, da soli, come durante l’assedio». Amela di quel periodo ricorda la fame, le bombe, l’assenza di vie d’uscita: «Le persone arrivavano a perdere anche 40 chili. Quattro anni senza carne, frutta o verdura. Solo il pane, quando c’era: i sarajevesi stavano ore in fila per prenderlo. Ma i serbi sapevano dov’era la distribuzione e sparavano. Il mondo si accorse di noi al primo massacro al mercato di Markale. Era il 5 febbraio ‘94: morirono sul colpo 68 persone. È successo in una capitale europea».

DI FRONTE AL MUNICIPIO, sulla riva opposta del fiume, oggi fanno la fila per un pasto caldo, tra le tende montate nel parco cittadino, centinaia di profughi. Hanno iniziato ad arrivare a inizio dicembre, oltre 4mila da inizio anno. Sarajevo è la nuova capitale della rotta balcanica per chi scappa da guerre o povertà, rifugiati o migranti economici. Vogliono tutti spostarsi nell’Unione europea. Li assistono medici e volontari. «Sono felici di arrivare qui perché ci sono tanti musulmani come molti di loro sono, e la gente aiuta: sa cosa vuol dire trovarsi in guerra», racconta Jasmin Mujakic, responsabile della ong Emmaus che da un mese distribuisce 250 pasti al giorno. A qualche minuto dal giardino-accampamento è tornata a funzionare la funivia che collegava la città al monte Trebević (1.160 metri, oggi parte della Repubblica Serba), distrutta nei primi giorni del conflitto, riaperta solo lo scorso 6 aprile.

Un migrante dorme su una panchina nel giardino pubblico di fronte al Municipio, trasformato in un campo profughi temporaneo (foto di Ziyah Gafic) Un migrante dorme su una panchina nel giardino pubblico di fronte al Municipio, trasformato in un campo profughi temporaneo (foto di Ziyah Gafic)

L’UNIONE EUROPEA RIMANE L’OPZIONE PRINCIPALE per quest’area. «Si parla dell’influenza turca e russa», spiega l’ambasciatore Wigemark, «ma rimaniamo noi gli attori principali in termini economici, di sicurezza e di stabilizzazione. Il 70% del commercio bosniaco è con l’Ue, sette dei dieci più grandi gruppi di investimento sono europei. L’Italia gioca un ruolo fondamentale: «L’interscambio tra Bosnia e Italia supera 1,5 miliardi di euro l’anno: tre volte l’interscambio tra Turchia e Bosnia, per dare un’idea delle proporzioni», sottilinea l’ambasciatore d’Italia in Bosnia Nicola Minasi. Incontro il presidente di Intesa Sanpaolo Gian Maria Gros-Pietro proprio a Sarajevo: «Nel Paese siamo presenti con 54 filiali, un totale attivo di 950 milioni di euro e più di 500 persone occupate. Gli investimenti effettuati confermano il nostro impegno nella crescita economica della Bosnia».

DAL PUNTO DI VISTA STORICO, geografico e culturale siamo in Europa, ma in un’altra Europa, e forse in una nuova Europa. La sfida, per i bosniaci, è lavorare sulla riconciliazione interna. La sfida, per noi, è aiutarli in questo e fare spazio all’idea di un’Unione europea diversa, di un Islam europeo e di una società multiculturale, come Sarajevo è da secoli. L’alternativa è avere un vicino di casa estraneo e abbandonare la Bosnia Erzegovina in un limbo post europeo. Senza che abbia mai davvero conosciuto l’Europa.

(Le foto del servizio sono di Ziyah Gafic)

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