reportage
16 ottobre 2018

La complicata Giordania dei siriani

Mohamed, picchiato per strada dai soldati in Siria, ha ancora gli incubi la notte. Yamha, 16 anni, è stata data in sposa dalla sua famiglia a un uomo che beveva e la picchiava. Ahmed, 10 anni, raccoglie pomodori sotto il sole cocente. E la scuola? I rifugiati vanno in classe solo il pomeriggio, le lezioni del mattino sono solo per i giordani. Dopo sette anni di guerra, molti profughi siriani vorrebbero rientrare nel loro Paese, non lo fanno per paura

Un graffito raffigurante una bambina siriana, realizzato nell’ambito del Baladk Street Festival ad Amman (foto di Yousif Japai)

«OGNI SERA MI SIEDO a giocare con mia figlia, prendiamo un’automobilina rossa e, con la fantasia, ripercorriamo la strada verso la Siria. Se io dovessi morire qui voglio che lei sappia qual è la via di casa».
Basim ha 44 anni e gli occhi chiari. Sorride, nonostante tutto. A Daraa faceva il panettiere. Era un lavoro modesto. «Ma mi piaceva», racconta seduto vicino alle tende bianche e rosse della sua nuova casa. Ora, in Giordania, è un venditore ambulante. Irbid, una ventina di chilometri dal confine tra la Siria e la Giordania. Per strada un gruppo di bambini aspetta l’arrivo del carretto dei gelati in mezzo alla polvere. Fa ancora caldo e, se non fosse per il vento che ogni tanto fa danzare i rami degli ulivi, stare all’aperto sarebbe difficile. Il governatorato di Irbid è una delle zone più povere del Paese, il tasso di disoccupazione è al 18,5 per cento e pochi turisti si spingono fin qui. In giro, qualche automobile e qualche tir.
Una notte, nell’agosto del 2012, Basim non ha rispettato il coprifuoco. Allora le rivolte erano scoppiate da pochi mesi. Due studenti avevano scritto sul muro della scuola «È arrivato il tuo turno, dottor Bashar al-Assad» e da lì era iniziato tutto. Si parlava ancora di Primavera araba. Ma presto la rivoluzione sarebbe diventata guerra. «Mio cugino è morto, i miei amici, i miei fratelli. Tutti. Non è rimasto più nessuno». Il racconto di Basim continua mentre fuori il sole è ancora a picco. «Una sera stavo tornando a casa, non mi ero accorto fosse tardi. A un posto di blocco, i soldati mi hanno sparato. Tre colpi. Uno alla spalla, uno al petto e uno al fianco. Mi sono finto morto. Ma quando finalmente mi hanno portato all’ospedale i medici mi hanno spiegato che per la mano e il braccio non c’era più niente da fare». Basim si rimira la protesi che gli sostiene le dita. I gancetti brillano mentre si riflettono sulla teiera ancora bollente. Quando lui, suo figlio Mohamed, 12 anni, e sua moglie Dalal, 34, con la più piccola, Nur di 3, hanno passato il confine, si è dovuto togliere la protesi per non destare sospetti. «Mohamed mi teneva la mano in modo da sostenermela. Sembrava un gesto normale, da figlio con il padre. Ma io avevo nascosto 50 mila lire siriane (100 euro circa) nel passaporto di ciascuno di noi in modo che le guardie non controllassero se il mio nome era sulla lista. Così siamo riusciti a entrare e ci siamo messi in salvo».

MOHAMED NON È TRANQUILLO. Tiene gli occhi bassi, ha paura, in Siria i soldati lo hanno picchiato per strada. «Ancora oggi si sveglia di notte con gli incubi, ogni tanto si fa la pipì addosso», sussurra la madre. Tutti i giorni Basim e Mohamed si danno il turno al banchetto che tengono in strada. Due tavole di legno e un laccio, su cui vendono dolciumi e caramelle. «È un bravo bambino, l’altro giorno ha messo da parte delle monete. Dice che le vuole usare per comprare un libro a Nur». La famiglia se ne sta seduta sui cuscini di tessuto sintetico color cremisi, lisi dal tempo. Rimangono quasi sempre in casa ed escono di rado. «C’è qualche vicino gentile con cui parliamo ma non abbiamo amici».
Un gruppo di bambini passa lungo la strada. In mano i gelati che iniziano a sciogliersi. Guardano Mohamed con disprezzo. «Sury nury», siriani zingari, li chiamano così i rifugiati da queste parti.
Quindici chilometri più giù verso la frontiera, nei campi di Ramtha l’aria è ancora più secca e la polvere toglie quasi il respiro. «Raccolgo i pomodori dalle 6 del mattino alle 12». Ahmed, 10 anni, sta impilando tre cassette di legno e di plastica. La sua giornata è quasi finita. Ma non c’è spazio per il gioco o per i compiti. La sua famiglia vive in uno degli insediamenti informali di tende lungo la strada. Una ventina di baracche e qualche capra nel recinto. Lui non va a scuola da tre anni. «Un giorno voglio diventare dottore», dice sistemandosi il cappellino da baseball. Anche le donne lavorano nei campi. Per un chilo di verdura raccolta ricevono 7 dinari giordani al giorno (circa 8 euro) ma tutti i soldi vanno al proprietario della terra che rivende i pomodori nei mercati delle città. In cambio, loro hanno il permesso di piantare le tende.
Ad Amman, la luna diventa sempre più grande sui tetti bianchi, mentre gli expat, gli stranieri che vivono qui, si rilassano sui rooftop dopo una giornata in ufficio. È qui nella capitale giordana del regno di Abd Allah II che hanno sede i quartieri regionali delle organizzazioni umanitarie e non. Dal 2011 ad oggi la crisi siriana è costata 2,5 miliardi di dollari, che per lo più sono arrivati da fuori. I siriani registrati hanno toccato quota 671 mila. Ma si stima che insieme a quelli non registrati siano almeno un milione. È stato questo il ruolo della Giordania, uno Stato in grado di assorbire i colpi dei conflitti nei Paesi limitrofi. Prima quello arabo-israeliano. Ora la Siria. Ma la crisi economica e politica che ha investito tutto il Medio Oriente pesa anche qui, in un Paese privo di particolari risorse naturali. E nei prossimi anni lo scenario potrebbe cambiare.

Un gruppo di donne raccolgono i pomodori nei campi di Irbid, al confine tra Siria e Giordania (foto di Yousif Japai) Un gruppo di donne raccolgono i pomodori nei campi di Irbid, al confine tra Siria e Giordania (foto di Yousif Japai)

«SOLO IL 10 PER CENTO DEI SIRIANI in Giordania vive nei campi, il resto si è stabilito in zone urbane dove è più esposto a ogni forma di sfruttamento senza che i media e la politica si interessino a loro. Sono invisibili». Christine Strassmaier, ricercatrice del think tank Meia Research, vive ad Amman da oltre un anno. Conosce bene la regione e quando parla del conflitto si anima. «Dopo sette anni di guerra, i siriani rifugiati in Giordania secondo le statistiche sono quelli che più vorrebbero rientrare, ma non lo fanno per paura, paura della coscrizione obbligatoria da parte dell’esercito o di essere arrestati o paura in generale», continua Strassmaier.
Anche la vita in Giordania non è facile. «L’altro giorno sull’autobus mi hanno minacciato. Mi hanno chiamato con brutte parole, pensano che siccome vieni da fuori non hai diritti». Lina, 23 anni, è alta. Fiera. Arriva da Damasco. A differenza di sua sorella, non si è voluta mai sposare. «In Siria andavo all’università. Studiavo ingegneria. Ma qui non posso, la retta è troppo alta e non trovo lavoro». In uno stanzone vicino alla moschea di Abu Darwish, il vociare aumenta. Ognuno ha da raccontare la sua storia, mentre i bambini giocano sotto il tavolo. «Non possiamo guidare (in Giordania ai rifugiati maschi e femmine non è consentito avere la patente, ndr)», dice Safiya. E anche se nessuna lo dice c’è un destino che pesa più di tutto. Le più giovani vengono date in sposa. «In questo modo le famiglie si liberano di bocche da sfamare, riescono ad avere qualche soldo in cambio, e proteggono il cosiddetto “onore” delle ragazze e delle famiglie», spiega Pamela Di Camillo dell’UNFPA, il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione.
Yamha giocherella con tre braccialetti dorati. Ha 16 anni, la pelle rovinata dall’acne. L’appartamento è umido e i muri scrostati. Una trentina di chilometri da Amman, Madaba è famosa per le sue attrazioni turistiche ma anche per essere una delle zone dove i siriani sono più vulnerabili. «Quando siamo arrivati in Giordania dalla campagna di Aleppo nel 2015 siamo finiti in un campo rifugiati». Buona parte di chi è entrato è transitato da Zaatari o Azraq. «In Siria studiavo, mi piaceva scienze. Ma, arrivati qui, non avevamo più niente. Mio padre ha deciso di darmi a un siriano. Era un uomo cattivo. Beveva e mi picchiava». Dopo nove mesi Yamha è stata rispedita dalla sua famiglia che ha dovuto pagare per poterla riprendere. «Mille dinari giordani (1.200 euro circa), una fortuna». Ora Yamha vive di nuovo con il padre Mohamed, la madre Khulood e il fratello Ammar. Lui lavora come muratore dodici ore al giorno per pagare il debito della sorella. E ha smesso di andare a scuola.

Una partita di pallone in un liceo maschile a Madaba (foto di Yousif Japai) Una partita di pallone in un liceo maschile a Madaba (foto di Yousif Japai)

NEL CORTILE DELLA QADISIAH Male High School i ragazzini corrono. È ora della merenda. Qualcuno tira fuori un pallone e sotto gli occhi di re Abd Allah dipinto sul muro della facciata inizia una partita di calcio. «Come Messi, come Messi», grida un ragazzino prima di buttarsi nella mischia. Gli alunni giordani frequentano le lezioni al mattino. Quelli siriani al pomeriggio. Solo i minori le cui famiglie sono registrate presso l’Unhcr possono iscriversi. «Abbiamo 730 studenti giordani e oltre 330 siriani, tutti maschi. 46 insegnanti per i primi, 17 per i secondi. Questa è una scuola particolarmente problematica». Sospira Nail, 43 anni, mentre percorre i corridoi del suoi istituto. Da tre anni è preside alla Qadisiah. «Avremmo bisogno di più fondi. Ad esempio per installare le telecamere nei corridoi. E poi mancano i computer per i ragazzi siriani e i libri per la biblioteca». Il mese scorso qualcuno ha rubato i distributori dell’acqua e non mancano i casi di abusi e di violenze sessuali. A sostenerlo e a individuare i ragazzi più a rischio di abbandono scolastico o che necessitano di supporto per frequentare le lezioni, ci sono gli operatori di Intersos che, con un progetto finanziato da Echo, l’agenzia europea per gli aiuti umanitari, e in parte dalla cooperazione italiana, operano in sei governatorati della Giordania. Marcello Rossoni, direttore per il Medio Oriente della ong italiana, sorride. Ha appena saputo che per questo piano di intervento sono stati stanziati nuovi fondi. «Fino ad oggi abbiamo lavorato su oltre 1.100 casi fornendo assistenza alle famiglie per promuovere l’ingresso o la permanenza a scuola e supporto ai minori che non avevano accesso al sistema scolastico ufficiale. Ci siamo resi conto quanto la discriminazione, la paura di essere stigmatizzati, le distanze, il fatto di aver abbandonato la scuola anni fa in Siria e non esserci più tornati impediscano a questi bambini di accedere a dei diritti fondamentali, come l’educazione, lo scambio con i loro pari età, una vita “normale” e che questo ha effetti devastanti sulla loro vita e sul loro sviluppo futuro».

AD AMMAN, il muezzin canta mentre il traffico dell’ora di punta diventa incandescente. Nel quartiere di Swelieh, Omar, 65 anni, sta tornando verso casa. Ha appena finito il suo turno di inserviente alla moschea. Lavora ancora per mantenere i suoi tre nipoti, uno di loro riesce anche a mandarlo a scuola, ogni tanto. «È un bravo bambino», dice con gli occhi che si illuminano. Due dei suoi figli maschi sono morti ad Homs. Uno è stato ucciso da un cecchino. L’altro è sparito nel nulla. E settimana scorsa qualcuno ha fatto arrivare ad Omar un pacchetto con i documenti. Ma allegato non c’era nessun messaggio.

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