il ponte invisibile
27 settembre 2018

Con noi genovesi non si scherza

Un giornalista del Corriere racconta l’anima della sua città sconvolta dal crollo del 14 agosto, ma rinfrancata dall’unione tra cittadini, «forti e testardi». Questa è sempre stata l’arma di Genova: dalla difesa contro i pirati nel Medioevo alla lotta di Liberazione del ‘45, dalla risposta al terrorismo alla reazione dopo la tragedia del ponte Morandi. Ecco perché chi lo ricostruirà dovrà farlo in fretta e bene

Foto di Gianni Berengo Gardin Foto di Gianni Berengo Gardin

C’è un ponte a Genova che non crollerà mai. È invisibile, ma è ben sorretto da stralli che non si corrodono e cemento che non si spezza. Collega uno a uno tutti noi genovesi: i portuali con gli imprenditori, la Chiesa con la pubblica amministrazione, i genoani con i sampdoriani, i ricchi con i poveri, quelli di sinistra con quelli di destra, il mare con i monti. Un ponte che è sempre stato a difesa della città e contro chiunque avesse intenzione di ferirla, offenderla, umiliarla. Perché con i genovesi non si scherza. E chi oggi è chiamato a decidere sul futuro della Superba dopo il disastro del cavalcavia Morandi, è bene lo sappia. Il genovese non ha pazienza e si lamenta, anzi: mugugna. Ma, soprattutto, agisce. E quando agisce lascia il segno. Sempre. Lo racconta la Storia. Nel Medioevo le faide tra le grandi famiglie (i Doria, i Fieschi e gli Spinola) non si contavano: torri abbattute, grandi dimore date alle fiamme, battaglie navali. Se le davano di santa ragione insomma. Ma quando era il momento di difendere le coste e le mura da tentativi di invasione di barbari e pirati, diventavano un’unica forza. Invincibile.

E mica la Storia si è fermata lì. Nel 1746, per dire, partì dalle mani di un ragazzino del quartiere Portoria, Giovan Battista Perasso detto Balilla, l’insurrezione contro le truppe dell’impero austro-ungarico che occupavano la città. Una pietra scagliata con la fionda accompagnata dal grido «Che l’inse!» (Che cominci!) cambiò per sempre il destino non solo di Genova, ma di molti popoli sottomessi, che guardavano a quella città sul mare come un simbolo di fiera indipendenza. No, non si scherza con i genovesi. Lo hanno imparato anche nazisti e fascisti. L’insurrezione di Genova, che ha portato alla liberazione della città tra la sera del 23 e il 26 aprile 1945, rappresenta l’unico caso europeo in cui un intero dispositivo militare tedesco si è arreso ai partigiani senza alcun intervento a sostegno da parte degli Alleati, che sono arrivati in città solo il 27. Con il celebrato understatement genovese, che fa della Superba la Londra del Mediterraneo, fu costruito un ponte invisibile di alleanze cittadine – capace, per capirci, di collegare la Curia e il Pci – che permise alla Resistenza di battere il nemico e vincere la pace. Nella caotica euforia della libertà ritrovata, il cardinale Giuseppe Siri radunò partigiani (cattolici e comunisti) e portuali (da sempre spina dorsale della Superba) raccomandando a tutti di evitare vendette nei confronti dei fascisti. E così fu: non una goccia di sangue versato, mentre in altre parti di Italia il dopo si tinteggiò d’orrore.

Uniti, testardi, forti. No, non si scherza con i genovesi. Qualche vecchio militante del Movimento sociale italiano, il partito che fino al 1995 ha rappresentato la destra estrema, lo ricorda bene. Nel giugno del 1960 l’Msi avrebbe dovuto tenere il congresso a Genova per celebrare un evento epocale: l’esecutivo presieduto dal democristiano Fernando Tambroni, infatti, aveva preso forma a marzo grazie anche al voto dei “missini”, scatenando l’allarme fra le forze antifasciste. I genovesi erano decisi a impedire il congresso e un discorso di Sandro Pertini il 28 giugno incendiò la piazza (non a caso quell’arringa di protesta del futuro presidente della Repubblica, allora leader del Partito socialista italiano, viene ancora ricordata oggi come “u brichettu”, il fiammifero). Dopo una manifestazione alla quale partecipò in massa la città intera, il 30 giugno scoppiò la rivolta che portò Tambroni a dimettersi. Il congresso saltò. Il governo cadde. Vent’anni dopo, altra manifestazione memorabile, contro il fronte opposto. Quella che accompagnò sotto una pioggia gelida, nel gennaio 1979, il feretro di Guido Rossa, operaio comunista ucciso dalle Brigate Rosse, che proprio Genova avevano messo nel mirino con atti clamorosi, dal sequestro di Mario Sossi (’74) all’omicidio di Francesco Coco (’76). Nel gesto coraggioso di Rossa, che aveva denunciato i brigatisti della sua fabbrica, si riconosceva, sotto quella pioggia, in lacrime, la città intera raccolta dietro la bara.

No, con i genovesi non si scherza. Chiedetelo a Giuseppe Sculli, Ciro Immobile, Alberto Gilardino e tutti gli altri giocatori del Genoa protagonisti nel 2012 di un campionato disastroso. In qualsiasi altro stadio probabilmente i tifosi si sarebbero limitati a cori, insulti, striscioni di protesta. A Marassi, dopo 4 gol rifilati dal Siena ai rossoblù, gli ultras chiamarono i calciatori a bordo campo e si fecero consegnare la maglia: «Non siete degni di indossarla». Episodio detestabile e violento, ma, ancora una volta, emblematico di un popolo che ama far seguire i fatti al mugugno. Ma, attenzione… Stiamo parlando degli stessi tifosi rossoblù che, in una città nella quale il calcio ha un significato profondo ed è motivo di forte rivalità, in occasione della tragedia del ponte Morandi, si sono ritrovati uniti e mischiati ai “cugini” blucerchiati, esattamente come i giocatori e i dirigenti delle due squadre, ai funerali delle vittime. C’è un’illustrazione, molto popolare sui social, che rappresenta l’unione: due tifosi di Genoa e Sampdoria, visti di spalle, affiancati. Si tengono stretti e ciascuno di loro allunga idealmente il braccio verso gli opposti monconi del Morandi: uniti per ricostruire ciò che è crollato.

Non basta. Mai si era vista un’intera curva di tifosi, nella fattispecie la Gradinata Nord, restare in silenzio assoluto 43 minuti di fila (inizio di campionato, Genoa-Empoli, 25 agosto) per rendere omaggio alle 43 vittime e, dal minuto 44, compatta nel ritmare il coro «Genova! Genova!». Sponda blucerchiata? Gradinata Sud deserta per Sampdoria-Fiorentina (19 settembre). La Lega ha stabilito di giocare prima alle 17, poi alle 19, senza tener conto che il crollo del Morandi ha gettato il traffico cittadino nel caos. I tifosi volevano si giocasse alle 21, quando il grosso dei lavoratori sono già tornati a casa. No? «E allora noi disertiamo la partita». Risultato? 6.600 abbonati sono rimasti a casa e chi si è presentato allo stadio ha evitato di esporre striscioni e sventolare bandiere. No, con i genovesi non si scherza. Perciò chi deve curare la ferita del ponte e rilanciare la città dovrà risolversi a farlo in fretta e bene. Come in fretta e bene hanno deciso di lavorare assieme Regione, Comune e Curia. Sì, il presidente Giovanni Toti (che genovese non è, ma genovese è diventato), il sindaco Marco Bucci e il cardinale Angelo Bagnasco hanno ricostruito quel ponte invisibile del 1945. Ora tocca al governo. Altrimenti... «Che l’inse!».

(La foto è di Gianni Berengo Gardin)

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