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25 febbraio 2019

Incubi in serie (tv): quando il protagonista è un cattivo

Arriva in Italia Surviving R. Kelly, docu-serie sulla vita del rapper accusato di abusi sessuali, pedofilia e pedopornografia. Negli Usa, dove è già andata in onda, ha registrato record di ascolti e di polemiche. Come accaduto con i documentari su Michael Jackson e Harvey Weinstein

Incubi in serie (tv): quando il protagonista è un cattivo

Quando uscì, nel 1996, era la mia canzone preferita. I believe I can fly di R. Kelly, un testo pieno di significato per una ragazzina italiana approdata alla Columbia University con tanta voglia di sfondare. Ma già negli anni Novanta, negli Stati Uniti, non si parlava di R. Kelly solo per le sue canzoni. Abusi sessuali, pedofilia, pedopornografia. Il matrimonio segreto con Aaliyah, promessa dell’hip hop-R&B conosciuta a 12 anni, quando Kelly, suo mentore, ne aveva 27 e lei soltanto 15, celebrato senza il consenso dei genitori della ragazza e poi annullato (Aaliyah morirà in un incidente aereo nel 2001); le giovani donne pagate per tenere il silenzio sulle violenze subite. Eppure, raramente queste storie finivano in prima pagina, e a parte un processo per pedopornografia ai danni di una 14enne con cui Kelly aveva girato un filmino hard (processo conclusosi nel 2008 con un’assoluzione, nonostante 14 testimoni avessero riconosciuto la ragazzina del video), Kelly non ne rispose mai, grazie a una fitta rete di protezione e un fiume di soldi. Addirittura, nel 2017, fu accusato di tenere prigioniere un gruppo di giovani di cui abusava sistematicamente, in un ecosistema simile a una setta. Spotify bloccò per un periodo la condivisione delle sue canzoni, qualcuno si distanziò, poi tutto venne dimenticato. Come sempre. Complice anche lo stereotipo del bad boy della musica cui tutto viene perdonato. Lo stesso Kelly, in un video di qualche tempo fa, si faceva beffe del movimento di protesta #MuteRKelly. «Siete arrivati tardi» diceva brindando con amici. «Ho un milione di bastardi che mi odiano, ma 40 miliardi che mi amano. La palla è in mano mia».

Tutto è cambiato qualche settimana fa, dopo la messa in onda, con record di ascolti, del documentario Surviving R. Kelly, che vedremo in Italia in sei episodi, dal 18 marzo, su Crime+Investigation (canale 119 di Sky), con il titolo R. Kelly: vittime di una popstar. Una serie esplosiva, con più di cinquanta interviste tra presunte vittime, collaboratori ed ex collaboratori, familiari e star come John Legend, che prendono le distanze da Kelly. Immediatamente la RCA, etichetta del cantante, ha chiuso ogni rapporto, le radio nazionali hanno iniziato un boicottaggio, Lady Gaga ha chiesto scusa per aver, in passato, lavorato con Kelly e altre celebrities, come Céline Dion, hanno ritirato dal mercato le collaborazioni. Soprattutto, si sono fatti avanti gli inquirenti, e indagini su Kelly sono state avviate dalla Georgia all’Illinois (anche se in alcuni casi la prescrizione renderà impossibile perseguire i reati).

Ma perché dopo quasi trent’anni le accuse contro R. Kelly, che ha definito il documentario «una vendetta», spingendo i fan a protestare, fanno così clamore? Per Tamra Simmons e Jesse Daniels, produttori esecutivi della serie, il merito è soprattutto del movimento #MeToo. «Due anni fa, Surviving R. Kelly non avrebbe potuto andare in onda», spiega Daniels a 7. «Oggi, invece, la sensibilità è cambiata. Movimenti come #MeToo e Time’s Up hanno dato alle vittime il sostegno necessario, fornendo loro un palco per esprimersi e mobilitando l’opinione pubblica. Il resto lo hanno fatto i social media, molto più pervasivi oggi di pochi anni fa». Affinché il contenuto fosse più vivo e accessibile, la regista Dream Hampton ha scelto di raccontare decenni di violenze in modo cronologico, intervistando quante più persone possibili per spiegare il “sistema R. Kelly”. Come Lisa Van Allen, costretta da Kelly, quand’era minorenne, a un rapporto a tre con la 14enne del processo, e Jerhonda Pace, pagata per tacere sull’esser stata segregata da Kelly quando aveva 16 anni. Mentre ricordano iniziano a tremare, hanno crisi di pianto. Scene inquietanti, specie se accostate ai toni rilassati degli amici di Kelly. Aggiunge Simmons: «Storicamente, le donne di colore (come sono le vittime di Kelly nella maggior parte dei casi, ndr) hanno più timore a denunciare. Pensano che nessuno le crederà, nessuno le sosterrà. Con #MeToo è cambiato tutto. Tanto che nei giorni successivi alla messa in onda, le chiamate al numero di emergenza per gli stupri sono aumentate del 27%. La cortina di protezione sta venendo giù».

Non solo R. Kelly. Se a Parigi, negli stessi giorni, veniva arrestato (e poi rilasciato) per stupro aggravato il rapper Chris Brown, che nel 2009 aveva picchiato ferocemente la compagna Rihanna, poche settimane dopo, al Sundance Film Festival di Salt Lake City, altri due documentari hanno preso di mira le molestie. Untouchable, film della regista Ursula Macfarlane su Harvey Weinstein (arrestato a maggio per stupro), e Leaving Neverland, serie in due parti su due accusatori di Michael Jackson: il 36enne Wade Robson, ballerino e coreografo di Britney Spears, e James Safechuck, 42 anni, protagonista con Jackson di uno spot per la Pepsi nel 1986. Entrambi, negli anni Novanta avevano negato ogni molestia (in particolare Robson, che testimoniò anche al processo contro Jackson del 2004, circostanza sottolineata oggi dall’eredità del cantante, che definisce Leaving Neverland «un linciaggio»); entrambi, dopo la nascita dei rispettivi figli maschi, hanno iniziato ad ammetterle. Anche Untouchable scandaglia decenni di molestie, ma a differenza di Surviving R. Kelly non contestualizza il racconto delle presunte vittime con esperti che analizzino le conseguenze delle violenze sistematiche, l’isolamento sociale delle donne, il ricatto psicologico, mentre le ricostruzioni con attori, nota l’Atlantic, riducono il documentario a un episodio malriuscito di Cold Case. Ma il film ha un pregio: con la testimonianza di un’ex studentessa, che accusa Weinstein di averla stuprata in un hotel alcuni decenni fa, sposta la data d’inizio delle violenze di Weinstein a ben prima che diventasse un grande produttore.

Al contrario, l’impatto emotivo di Leaving Neverland è enorme. Robson e Safechuck raccontano con semplicità il primo incontro con Jackson, i regali e le lusinghe, e poi l’angoscia per essere stati manipolati da qualcuno di cui si fidavano, di cui tutto il mondo allora si fidava. Negli anni Ottanta, Michael Jackson era una star planetaria: ricevere attenzioni da lui avrebbe fatto sentire speciale chiunque. Nei giorni scorsi, la rievocazione si è arricchita di un ulteriore tassello: Adrian McManus, ex cameriera di Jackson, ha raccontato in un’intervista di filmini segreti, bambini seminudi per casa, biancheria intima di Jackson ritrovata nella vasca da bagno insieme a quella dei piccoli ospiti, fino alle minacce subite dalle guardie del corpo del cantante. Crederle? Chissà. Ma se le prima accuse di pedofilia nei confronti di Jackson risalgono (come per R. Kelly) a quasi trent’anni fa, Leaving Neverland va visto perché offre una nuova chiave di lettura. Ci svela gli effetti che le molestie di Jackson, morto nel 2009 per arresto cardiaco seguito a overdose, continuano ad avere, dieci anni dopo, sulle sue presunte vittime, e quindi su tutte le vittime di abusi. Ci mostrano il trauma psicologico di Robson, che all’epoca dei fatti aveva sette anni ma solo nel 2012, dopo due esaurimenti nervosi, ha confessato le molestie. E quello di Safechuck, che dopo la nascita del figlio ha temuto di sviluppare anche lui tendenze pedofile, e soffre di disturbo post-traumatico da stress. «Non ho mai avuto l’opportunità di raccontare nel dettaglio quello che mi è successo», dice Robson. «La mia speranza è che le mie ferite possano aiutare altri sopravvissuti, oltre a sensibilizzare genitori ed insegnanti affinché certe vicende non si verifichino più».

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