guerra
10 gennaio 2019

Siria, 2011-2019: storia di un lungo disastro

L’annuncio del ritiro americano dal Paese è solo l’ultimo atto di un conflitto durato otto anni e non ancora finito, dopo mezzo milione di morti e 5,4 milioni di rifugiati. Cosa succederà ora?

Siria, 2011-2019: storia di un lungo disastro

UNA GUERRA già finita, secondo alcuni. Una guerra appena iniziata secondo altri. Riavvolgendo il nastro di questi ultimi otto anni non ci si può fermare al mezzo milione di morti, che già di per sé dovrebbero bastare a definire questo conflitto come uno dei più sanguinosi della nostra epoca. E non ci si può nemmeno limitare all’analisi cruda del dato di 5,4 milioni di rifugiati che un impatto enorme hanno avuto sugli equilibri politici dei Paesi europei e di quelli limitrofi, Libano e Giordania in testa. Per capire come sia stato possibile che una rivolta iniziata – all’apparenza – con un gruppetto di ragazzini e un graffito su un muro si sia trasformata in un conflitto globale è dunque necessario muoversi su diversi piani. A partire dal primo, che rappresenta il contesto globale, fino ad arrivare a Damasco.

«I RAID ISRAELIANI in Siria, la guerra in Yemen, la Turchia pronta a sferrare un attacco contro i curdi, Assad al potere, l’Isis tutt’altro che sconfitto, l’Iran che espande la sua influenza regionale e la Russia quale potenza esterna più influente. Benvenuti nel Medio Oriente post americano». Twittava così Richard N. Haass, a lungo diplomatico e presidente del Council on Foreign Relations, poche ore dopo l’annuncio choc del presidente statunitense Donald Trump sul ritiro dalla Siria. Il disimpegno Usa in Medio Oriente però non inizia con l’ultima presidenza. È invece la decisione della precedente amministrazione di non intervenire contro il presidente siriano Bashar Assad, all’indomani dei raid chimici dell’agosto 2013, a determinare il futuro della regione. «In sostanza Obama ha deciso che per la Siria non valeva la pena rischiare una guerra con Russia e Iran», spiega a 7 Eugenio Dacrema, ricercatore associato dell’Ispi. Così, quando nel 2014 gli Stati Uniti intervengono in Siria a capo della coalizione anti Isis, Assad ha fatto in tempo a massacrare migliaia di oppositori e di civili per lo più appartenenti alla maggioranza sunnita. La rivoluzione siriana come altre primavere arabe già da tempo si è trasformata in una guerra civile. Secondo Amnesty International 13mila persone sono state uccise nella prigione di Sednaya vicino a Damasco. A questi se ne aggiungono altri 17.700 uccisi nelle altri carceri del regime.

LO SCENARIO dunque non è quello di un conflitto per rovesciare un dittatore. E la scelta statunitense di evitare l’impegno delle truppe di terra limitandosi all’invio di special forces e forze aree e di preferire l’approccio della guerra per procura attraverso l’alleato curdo inevitabilmente lasciano campo libero ad un’altra super potenza, la Russia. Sull’altro fronte, a partire dalla fine del 2015, Mosca, già alleata di Damasco, corona in Siria quello che è stato un sogno fin dai tempi di Pietro I e Caterina la Grande: uno sbocco sul Mediterraneo che Putin si assicura attraverso le basi militari (Tartous e Latakia) e il controllo dell’entroterra. Per riuscire in questa impresa il presidente russo non ha esitato a sostenere un regime, colpevole di raid chimici e di crimini di guerra contro i civili. In cambio, Assad si è assicurato un’impunità e una garanzia di esistenza futura mancata a dittatori come Saddam Hussein o Muammar Gheddafi.

IN QUEST ’ OTTICA – a voler semplificare – viene dunque da dire che fin qui i vincitori della guerra sono Assad e Putin. Anche Mosca però ha faticato. E non poco. Lo dimostra l’uso dei mercenari impegnati sul terreno per limitare le perdite (a nessuno piace vedere i propri soldati tornare a casa nelle bare) e l’impegno su un tavolo diplomatico alternativo a Ginevra, quello di Astana, che non necessariamente si è rivelato efficace. Per questa ragione dalla metà del 2017 fino all’estate 2018 si assiste a una catena di offensive che progressivamente portano nelle mani del regime tre delle quattro zone di de-escalation (zone di sicurezza): prima la Ghouta, poi le province di Homs e Hama, e infine il fronte meridionale nelle regioni di Daraa’ e Quneitra. Tutte operazioni che si sono concluse con accordi di evacuazione di parte dei combattenti dell’opposizione e dei civili poi ricollocati nel governatorato di Idlib, l’ultima sacca in mano all’opposizione forte di 3 milioni di sfollati.

DIRE DUNQUE CHE LA GUERRA IN SIRIA è finita è un errore, fosse anche solo per quel che riguarda il fronte jihadista. «Negli ultimi due anni, nell’area è risultato dominante Hay’at Tahrir al-Sham (conosciuto semplicemente anche come Tahrir al-Sham), gruppo salafita legato alla rete internazionale di Al Qaeda precedentemente conosciuto come Jabhat al-Nusra. Oggi il gruppo jihadista, pur non dominando interamente l’intero territorio di Idlib ne controlla i principali valichi di accesso e le principali aree urbane», precisa Dacrema. Ma non solo. Mosca ha dovuto e deve tutt’ora fare i conti con altri attori sulla scena che ora si trova a dover gestire. Da un lato Teheran, la cui presenza ha costretto Israele a reazioni di tipo militare sempre più frequenti contro le basi di Hezbollah in Siria, e dall’altro la Turchia, il cui piano in Siria prevede la negazione dell’autonomia dei curdi e il sostegno alle milizie dell’opposizione che ad Ankara servono per espandersi verso Manbij, fino a ieri bastione statunitense al confine tra Iraq e Siria.

ED E’ PROPRIO in questo gioco di specchi e di diverse strategie sovrapposte che si arriva al centro della questione, Damasco. Qui Assad pare aver consolidato il suo potere. Da un lato promette di non arrestare i disertori fuggiti in Libano e Giordania che volessero rientrare, dall’altro promulga una discussa legge con l’obiettivo di confiscare terreni e beni a chi ha abbondato il Paese. Intanto continua a massacrare gli oppositori come dimostrano le immagini satellitari delle fosse comuni di Sednaya pubblicate due settimane fa dal Washington Post.

SEBBENE GRAN PARTE del Paese rimanga al di fuori del suo controllo e la violenza non si sia placata, Assad resta al potere perché ora in ballo ci sono gli interessi economici legati alla ricostruzione di un Paese distrutto da anni di guerra e di sanzioni. Ed è in questa partita che va letta la recente riapertura dell’ambasciata emiratina a Damasco, mossa impensabile fino a qualche mese fa ma che si spiega alla luce della volontà di Riad ed Emirati di non lasciare troppa mano libera a Teheran nella regione. In attesa di capire quale sarà il ruolo dell’Unione Europea nella complicata partita della ricostruzione restano gli interrogativi più di lungo periodo. In primis quello dei ritorni dei rifugiati da Libano e Giordania, il cui futuro appare incerto, data l’incapacità del regime di trovare una forma di convivenza con la maggioranza sunnita del Paese.

UN SECONDO NODO è la questione del nord siriano. «Parte di esso è già sotto controllo turco e nuovi territori potrebbero aggiungersi dopo il ritiro statunitense. Come avvenuto a Cipro nord dopo l’invasione turca, il rischio è che quest’area resti a tempo indeterminato sotto controllo indiretto di Ankara, costituendo un costante fattore di instabilità per la Siria del dopoguerra», conclude Dacrema. E se fare previsioni in un quadro così complesso è sicuramente prematuro, ipotizzare a breve la pace in Siria è un azzardo. Quasi come parlare di fine della tempesta mentre all’orizzonte si addensano nuvole nere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
SEGUI 7 SU FACEBOOK

Leggi altri in ESTERI