reportage
29 gennaio 2019

Rio De Janeiro e il grande risentimento

Viaggio post-elettorale a Rio De Janeiro, dove la vittoria di Jair Bolsonaro ha diviso la città in due. Da un lato, il quartiere Barra da Tijuca, che ha votato in massa per il neopresidente. Dall’altra, il centro storico, che ancora non si capacita della svolta a destra del Paese

Rio De Janeiro e il grande risentimento

RIO DE JANEIRO – Barra da Tijuca è la Rio che raramente i turisti di casa nostra vanno a conoscere. Con i suoi venti chilometri di spiaggia, palazzi, shopping center e ristoranti, il quartiere piace soprattutto ad argentini, americani e a quelli che «non veniamo certo fin qui per vedere i poveri», a differenza di noi europei che un po’ questo gusto ce l’abbiamo. Barra è la Miami sotto l’equatore: sole, beach volley e surf, ma anche una vita nell’aria condizionata e l’auto in garage da usare anche solo per comprare il pane, se già non arriva a casa con il delivery. Nessun calciatore, di solito scappato alla povertà, si sognerebbe di abitare in un altro quartiere a Rio, nessun attore di telenovela o giovane imprenditore: è la classe media emergente, più i milionari per merito, i piedi buoni, i corrotti e anche i narcos. «Il posto ideale per rifilare un vino da tre euro a trenta volte tanto», scherzava anni fa un ristoratore italiano, prima della crisi economica. Ma oggi Barra – guarda caso il quartiere che ha ospitato le Olimpiadi 2016, la grande illusione – è soprattutto la fotografia del Brasile del grande risentimento: non dovevamo scalare il mondo? Barra, insomma, è Jair Bolsonaro e il bolsonarismo: inquietante, inatteso ma travolgente fenomeno politico della nostra era, che si specchia con il trumpismo a nord e il sovranismo oltre l’Atlantico. Con un occhio nel retrovisore al fascismo latinoamericano dei militari. Il nuovo presidente brasiliano non può che abitare qui, da anni, in una villetta come tante a pochi metri dal lungomare e protetta dal rassicurante filo spinato sui muri e dalle telecamere di sorveglianza. Barra è la capitale mondiale di barriere e sistemi di sicurezza. Durante la campagna elettorale, con la scusa della coltellata alla pancia da curare e i sondaggi assai favorevoli, Bolsonaro ha dribblato apparizioni in pubblico e dibattiti in tv per restare chiuso in casa, con i rider che portavano cibo e scaricavano casse di birre. Assediata da giornalisti e curiosi, per la prima volta in Brasile una residenza privata è diventata topos della politica, come palazzo Grazioli.

Un vista del quartiere Barra Un vista del quartiere Barra

NEL SUO QUARTIERE Bolsonaro ha ricevuto a ottobre quasi il 75 per cento dei voti, venti punti in più che nel centro di Rio de Janeiro, per avere una idea. È un’ondata di consensi paragonabile soltanto ad alcune regioni del Sud del Brasile bianco e iperconservatore. Il paradosso è che Barra, zona assai più tranquilla di altre ma ossessionata dalla sicurezza (cavallo di battaglia della destra), è un cocktail da manuale per il bolsonarismo. A cominciare dal fattore numero uno del suo trionfo: il risentimento. La Rio yankee è sorta dal nulla negli anni Ottanta, qui esisteva soltanto una spettacolare lingua di terra tra oceano e lagune. La progettò Lucio Costa, l’urbanista che creò Brasilia, e ci costruì qualcosa anche il suo partner Oscar Niemeyer, il grande architetto modernista. Solo che Niemeyer, da buon comunista, poi se ne pentì amaramente. «Quando ci passo chiudo gli occhi. Non posso vedere quella riproduzione della Statua della Libertà davanti a quell’orrendo shopping center», mi disse una volta in un’intervista. Si vantava anche di aver progettato i palazzi senza i balconi, «tanto qui nessuno li usa, fa sempre caldo e il vento è troppo forte». Il quartiere si è sviluppato con una velocità incredibile, domanda di mattone e spazi immensi da sfruttare. Negli anni della crescita economica dell’era Lula, nel decennio scorso, Barra da Tijuca divenne la terra promessa della nuova classe media. In decine di migliaia arrivarono qui da quartieri più modesti della città, non pochi anche da favelas, con il sogno del condominio all’americana con tutto dentro. Girato il vento, con la dura recessione dalla quale il Brasile sta tentando ancora di uscire e la forte disoccupazione, sono iniziati i problemi. Mutui troppo cari da onorare, spese di condominio assurde. Un’intera economia fondata sull’edilizia si è inceppata, i palazzi pronti sono rimasti vuoti, molti abitanti sono tornati da dove venivano. In politica, si sa, niente è peggio di un amante tradito, ed ecco come un enorme serbatoio di voti arrabbiati – qui come ovunque in Brasile – si è riversato sul lato opposto, nella destra estrema.

L’ALTRO GRANDE FATTORE che ha portato Rio e il Brasile nelle braccia di un ex militare favorevole alla tortura è la corruzione diffusa. Da quattro anni l’intera classe politica è sotto scacco dell’operazione Lava Jato, una Mani Pulite di dimensioni assai superiori alla nostra. Ma, come spesso accade, è nell’ex capitale, città simbolo del Paese, che tutto assume un’altra dimensione. Gli ultimi quattro governatori dello Stato di Rio de Janeiro sono finiti dentro per mazzette, due passeranno in galera parecchi anni. Sergio Cabral, l’uomo che saltellò con Lula in mondovisione quando a Rio vennero assegnate le Olimpiadi 2016 – i due credendosi al Maracanã – ha già accumulato condanne per 150 anni e non è ancora finita. «Ho

Barra vista dal mare
Barra vista dal mare

un po’ esagerato», ha ammesso in un interrogatorio. Ai costruttori Cabral ha spillato centinaia di milioni di dollari, che gli hanno permesso per anni una vita da nababbo, oltre ai privilegi della poltrona. Al suo successore, Luiz Fernando Pezão, i giudici non hanno nemmeno fatto finire il mandato, arrestandolo due settimane prima che scadesse. L’accusa è di aver ereditato in pieno il sistema di mazzette del suo predecessore. A Rio sono dentro anche una quindicina di deputati in carica. Un record. Della grandeur perduta, delle Olimpiadi e delle tangenti, la Barra di capitan Bolsonaro, ancora una volta, è l’epicentro. Lungo le sue autostrade urbane arruginiscono gli impianti dei Giochi per i quali non è stata trovata una destinazione. I grandi condomìni che hanno ospitato gli atleti, rimessi sul mercato immobiliare, sono invenduti all’80 per cento. Qui si è sprecato e si è rubato, anche se le Olimpiadi sono andate bene e in altre parti della città, come nel porto, gli effetti positivi dei grandi investimenti in infrastrutture sono evidenti.

I MILITARI a Rio si sono sempre sentiti in casa. L’ultima volta che hanno preso il potere, nel 1964, la capitale era già stata spostata a Brasilia, eppure è qui che esercito e marina hanno fondato la loro storia. Sotto il Pan di Zucchero gli ufficiali si costruirono un quartiere tutto per loro, Urca; e alcuni tra i più spettacolari panorami della città sono tuttora off-limits ai civili. Vedove e figli di militari continuano a godere di vitalizi privilegiati, che vari governi hanno provato invano a togliere. E si dubita parecchio che sarà quello attuale a farlo, nonostante la riforma delle pensioni sia in testa alle priorità del nuovo governo. La svolta Bolsonaro è ancora più sorprendente se si pensa che negli ultimi decenni il peso dei militari nella vita politica brasiliana era stato minimo. Una volta ottenuta l’amnistia per i reati della dittatura (e, a differenza di altri Paesi della regione, il Brasile non ha mai riaperto quella pagina), e preservati i privilegi di cui sopra, le forze armate si sono ritirate nelle loro fortezze vista oceano, lasciando a rappresentarli nella vita politica, e per sette legislature filate, solo un eccentrico deputato nostalgico di Rio de Janeiro. Jair Bolsonaro, appunto. Le cui sparate razziste e omofobe non superavano i confini dei programmi tv trash del pomeriggio. E in trent’anni non ha mai fatto approvare un progetto di legge.

ORA QUELLO A CUI POCHI credevano è accaduto e l’altra Rio, quella dei quartieri più tradizionali e che preferisce girare in bicicletta, fa ancora fatica a crederci. Qui i sentimenti si dividono tra chi pensa che Bolsonaro non potrà mettere in atto tutte quelle cose assurde e chi si aspetta il peggio, una riedizione completa della repressione, soprattutto culturale, messa in atto dai militari l’ultima volta che arrivarono al potere in Brasile. Rio vive di televisione, cinema, cultura, la grande rete Globo ha migliaia di dipendenti. Qui vivono i grandi della musica di ieri (gli stessi perseguitati ed esiliati degli anni Settanta: Chico Buarque, Caetano Veloso, Gilberto Gil) e di oggi, autori, scrittori, umoristi e registi. Uno degli slogan della campagna di Bolsonaro è stato: finirà la pacchia, cari comunisti. Tutto quel mondo, nella visione della destra, è legato al partito di Lula e alle sorgenti del denaro pubblico che in Brasile finanzia la cultura. E non è del tutto falso.

NELLA TORRIDA estate carioca che separa il Capodanno dal Carnevale, e tutto avviene a velocità minima, è ancora difficile capire quali saranno le conseguenze di un governo appena insediato. Per adesso, come per Trump e Di Maio, la Rete festeggia a suon di risate ogni gaffe, esagerazione e sparata dei nuovi marziani. La nuova ministra della Famiglia odia Darwin e dice che le bambine si devono vestire di rosa, il ministro dell’Ambiente non crede al riscaldamento globale e quello degli Esteri vuole estirpare il marxismo perché domina il mondo. Nei circoli intellettuali di Rio si parla di lasciare il Paese (anche qui) o si chiede all’amico fidato di nascondere i libri compromettenti nella casa di campagna (mi è successo), per quando i militari sfonderanno la porta di casa. Questo a tre settimane dal cambio della guardia. Per la realtà si vedrà più avanti.

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