Milano, 31 maggio 2018 - 10:18

Un cristiano, un musulmano e un’ebrea raccontano la loro Gerusalemme

Tre punti di vista diversi sulla città più contesa al mondo

di Monsignor Pierbattista Pizzaballa, Mahmoud Muna, Rossella Tercatin

Scheda 1 di 4

1.
Io, cristiano, e la città santa

«Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… ma adoreranno il Padre in spirito e verità». (Gv 4,21). Con queste parole Gesù dice alla samaritana che d’ora in poi non ci sarà più bisogno di adorare Dio in un Luogo, ma solamente in spirito e verità.
Sembrerebbe dunque che per il cristiano Gerusalemme abbia perso la centralità culturale che invece aveva per gli ebrei e che non vi sia più alcuna necessità di richiamarsi alla Città Santa nella propria vita di fede. Del resto, se ci pensiamo, Gerusalemme non ha quasi mai ricoperto un ruolo centrale nella storia del cristianesimo: non ha mai fatto scuola, non è mai stata veramente al centro delle vicende politiche che hanno coinvolto il cristianesimo occidentale e orientale, tranne che per momenti assai limitati e comunque mai veramente determinanti nella storia del tempo.
Sembrerebbe, insomma, che Gerusalemme e cristianesimo non siano necessari l’una all’altro. Ma non è così. È vero, un cristiano non ha bisogno di venire a Gerusalemme per la sua vita di fede. Ma non si può essere cristiani senza Gerusalemme. La storia della salvezza è storia di avvenimenti realmente accaduti. E non c’è storia, non c’è avvenimento senza un luogo. Il Luogo è per il cristiano segno. Senza il sepolcro vuoto di Cristo, senza l’orto dell’agonia, senza il Cenacolo, il cristianesimo sarebbe solo un racconto. Gerusalemme, ieri e oggi, ci permette di annunciare che Gesù è storia e che la sua storia la possiamo ancora toccare nelle pietre e nella storia della Città Santa.
Il cristianesimo ha poi idealizzato la Città Santa, trasformandola in una sorta ideale di vita. L’ultimo libro della Bibbia si conclude proprio con una visione della Città Santa e ne descrive la vocazione: abitata da Dio (Ap 21,22), la cui presenza illumina tutti (23); i popoli vivranno nella sua luce (24); in essa non c’è più notte e le sue porte sono destinate a rimanere sempre aperte (25); tutti i re della terra e tutti i popoli porteranno ad essa il loro splendore (26). Siamo apparentemente ancora lontani dalla realizzazione di questa vocazione, ma siamo faticosamente in cammino in quella direzione. Oggi infatti la città è abitata da ebrei, cristiani e musulmani, che si incontrano e si incrociano continuamente nelle vie della Città Vecchia per andare ciascuno ai propri luoghi di culto per pregare. Tutte le chiese cristiane del mondo si trovano anche a Gerusalemme. Siamo insomma tutti lì, abbarbicati sulla roccia su cui poggia la città, accavallati dentro le mura della città antica, gelosi della propria storia, sospettosi, timorosi che la storia altrui possa cancellare in qualche modo la propria. Abbiamo ancora molta strada da fare affinché la presenza di Dio illumini le relazioni fra noi tutti, come scritto nell’Apocalisse, e dove tutti possano mostrare vicendevolmente lo splendore della propria tradizione. Ma non bisogna desistere. Gerusalemme insegna a tutti i suoi abitanti la pazienza dell’attesa e non è generosa con chi ha fretta. Sapere attendere l’altro, e i suoi tempi, è parte della complicatissima trama su cui si intessono le relazioni nella città, che ahimè non sempre funzionano.
Sono arrivato a Gerusalemme trent’anni fa. La città mi è parsa subito un ambiente ostile con le sue intifade, ma non solo per quello. Le tensioni e le divisioni, l’astio, l’odio, insieme alla preghiera e allo studio, hanno segnato lo scorrere del mio tempo iniziale nella Città Santa. Poco alla volta, tuttavia, sono anche sbocciate relazioni, incontri, amicizie meravigliose, di una ricchezza incredibile e sono diventate ristoro umano e spirituale. La mia identità cristiana oggi si nutre anche di queste relazioni con amici ebrei e musulmani, senza i quali non potrei e non vorrei vivere nella città. Gerusalemme è ricca di contraddizioni: odio e amore, rifiuto ed accoglienza si mischiano continuamente. In fondo è la storia di tutti e ci rappresenta. A me ha insegnato l’incontro. E questo è anche il mio sogno per tutti.
Di monsignor Pierbattista Pizzaballa, arcivescovo cattolico e amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini

Scheda 1 di 4

© RIPRODUZIONE RISERVATA