Milano, 7 marzo 2019 - 10:28

I sette peccati del Movimento 5 Stelle

Un anno fa, il 4 marzo 2018, il Movimento 5 Stelle trionfava alle urne, portava 333 parlamentari a Roma (221 deputati, 112 senatori) e controllava il dibattito nazionale. Poi il governo con la Lega, che ha ribaltato le posizioni: ora l’agenda la detta Matteo Salvini. Cos’ha sbagliato il movimento fondato da Beppe Grillo e guidato da Luigi Di Maio? Sette firme del Corriere provano a spiegarlo

di Antonio Polito, Gian Antonio Stella, Federico Fubini, Pierluigi Battista, Enrico Marro, Marco Ascione, Beppe Severgnini

Scheda 1 di 8

1.
Simulazione - di Antonio Polito

Alastair Campbell, lo spin doctor di Tony Blair, grande comunicatore politico e inventore di celebri formule (come «Diana la principessa del popolo»), diceva che quando il portavoce di un leader diventa la notizia, è giunto il momento di farsi da parte. La volta che accadde a lui, si dimise. Non lo stiamo ricordando a Rocco Casalino che, per quanta notizia faccia, rischierebbe di doversi dimettere ogni giorno, se volesse seguire il codice Campbell. Ma è fuor di dubbio che i Cinquestelle stanno affogando, tra le altre cose, nella loro stessa comunicazione. La quale è certamente un valore aggiunto in politica, e gli eredi di Grillo l’hanno saputa usare con grande maestria e modernità negli anni dell’ascesa. Ma quando sei al governo, le cose cambiano. Gli italiani, infatti, come tutti gli elettori del mondo, tendono a credere a qualsiasi balla che possa servire a denigrare il potere, ma diventano molto sospettosi nei confronti delle balle che vengono da chi è al potere. La comunicazione è come la satira: funziona solo contro, mai a favore. E invece, a partire dal “meno tasse per tutti” di Berlusconi fino alle slide di Renzi, i nostri governanti sembrano essersi convinti che la confezione di una politica sia più importante di quello che c’è dentro. Così non è. E non solo perché i contenuti contano. Ma anche perché la comunicazione è come il dolce: prima devi servire primo e secondo, altrimenti diventa stucchevole. Così se la tessera del reddito di cittadinanza viene presentata come se fosse il nuovo iPhone X; se si annuncia la fine della povertà per decreto legge; se si pronostica come imminente un nuovo boom economico alla vigilia dei dati Istat che sanzionano una nuova recessione; se si vanta un’onestà a prova di bomba e poi viene alla luce un’antropologia fatta di bonifici finti e denunce false, la gente sente la nota stonata, e arriccia il naso. Qualunque comunicazione non può infatti prescindere dalla realtà. Non può abolirla, o negarla. È una lezione che i Cinquestelle, che partirono con l’idea di mostrare tutto in streaming e poi sono diventati più segreti di una setta segreta, dovrebbero riscoprire. Di eccesso di comunicazione si può anche morire (chiedere a Blair). Sì dunque alla «dissimulazione onesta», come la chiamava Torquato Accetto nel ’600: dire meno è meglio della verità. Ma guai a cadere nel vizio della “simulazione disonesta”, che dice il contrario della verità. In politica è un peccato capitale, perché se c’è una cosa che gli elettori non accettano è che qualcuno possa pensare di essere più furbo di loro.

Scheda 1 di 8

© RIPRODUZIONE RISERVATA