mano libera
7 giugno 2018

Il ciabattino scampato ai lager che amava il Sudtirolo senza barriere

Storia di Franz Thaler, artigiano pacifista che sulle montagne di Sarentino, sopra Bolzano, raccoglieva documenti storici. Ora il Planetarium sudtirolese gli ha dedicato un asteroide

C’è un asteroide nel sistema solare che, grazie al Planetarium sudtirolese, porta il nome di un ciabattino e holzschnitzer (intagliatore di legno) che fino all’ultimo lavorò seduto sul minuscolo sgabello d’un bugigattolo che odorava di larice e cuoio a Sarentino, a nord di Bolzano. Piccolo, ossuto, scavato in viso come Eduardo, vestiva sempre con le tradizionali bretelle di corame, si chiamava Franz Thaler e Bolzano gli ha ora reso un piccolo grande onore. Ha scelto di accogliere nella biblioteca comunale la collezione di libri, lettere, articoli, video che il vecchio aveva raccolto in tutto il dopoguerra e che lo storico Patrick Gamberoni, docente a Innsbruck, ha curato e riordinato. Un patrimonio prezioso di storie personali, familiari, paesane vissute direttamente e intrecciate con la storia del Sudtirolo, del nazismo, dei lager. Per non dimenticare.

DIMENTICARE MAI, DEL RESTO, è il titolo di un libro di memorie firmato da Thaler, così bello e denso che tre anni fa, per il settantesimo anniversario del ritorno da Dachau, Franz ricevette un affettuoso biglietto di auguri del presidente Sergio Mattarella. C’è tutto, in quel libro. A partire da quando, quindicenne, fu messo davanti alla scelta più difficile: «La mia strada per Dachau era segnata dal 1939. Nel giugno di quell’anno la Germania nazionalsocialista e l’Italia fascista diedero l’inizio al trasferimento dei sudtirolesi. Ci regalarono la cosiddetta opzione». O optare per la cittadinanza germanica «coll’esplicito obbligo di emigrare nel Reich germanico», o mantenere quella italiana «sotto la minaccia del divieto di ogni ulteriore richiesta di diritti di minoranza. Chi non si dichiarava sarebbe rimasto cittadino italiano. L’attuazione dell’accordo fu affidato al famigerato capo della SS e della Gestapo, Heinrich Himmler». Il papà di Franz, a nome di tutta la famiglia, scelse di restare. E di seguire il consiglio del canonico Michael Gamper che, da vero antifascista, aveva «chiarito alla gente la vera essenza del nazionalsocialismo», «riferito della persecuzione attuata nei confronti della Chiesa e della religione» e spiegato che le promesse («in Germania sarebbero stati costruiti villaggi identici a Durnholz») dove i Thaler vivevano, erano «assolute fandonie».

FURONO SOLO TRE, in paese, le famiglie che decisero di restare. I walschen come loro «erano oggetto di derisione ovunque, anche in chiesa la gente ridacchiava e parlottava alle loro spalle». La gente li salutava «con un sonoro “Buongiorno” in italiano». Infine arrivarono insegnanti che parlavano solo tedesco. E Franz fu buttato fuori dalla classe. Quando ricevette la cartolina di precetto si disperò: sapeva già «delle infinite atrocità commesse dal regime nazionalsocialista». Disertò e si diede alla clandestinità: «Alle tre della mattina partii per la montagna coi viveri necessari, una pentola, una ciotola e un cucchiaio nello zaino. Nascosto lassù volevo attendere la fine della guerra». Costretto a costituirsi perché non fosse arrestata tutta la famiglia, prese dieci anni di carcere solo perché minorenne (per i maggiorenni c’era la fucilazione) e finì a Dachau. Sopravvissuto, rifiutò di dimenticare l’orrore. E non rinnegò mai le sue scelte. Mai. Fino alla morte. Anni fa, per scrivere delle “opzioni”, andai a trovarlo. Guardava le sue montagne con l’amore profondo di chi non ha bisogno di sventolare formulette patriottiche: «Amo questi boschi, queste case intorno, questa vita che faccio. Se il confine è di qua o di là non mi interessa».

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