mano libera
22 novembre 2018

Di Maio e Di Battista arrivano ultimi nelle sfuriate contro i giornalisti

Da Vincenzo De Luca a Bettino Craxi, da D’Alema a Renzi, da Bossi a Berlusconi, l’antipatia per la stampa ha unito sempre i potenti di ogni colore. E provvisori

Di Maio e Di Battista arrivano ultimi nelle sfuriate contro i giornalisti

«Confermo la profonda e geniale intuizione che ho avuto quando ho detto che anziché comprare certi giornali è meglio comprare una zeppola. A Napoli una “frolla”, “una riccia”, una “sfogliata”, un babbbà…» Giggino Di Maio e Alessandro Di Battista, nelle loro sfuriate contro i giornali e i giornalisti sono arrivati ancora ultimi. Il loro stesso incitamento a non comprar i giornali, in particolare quelli che dan loro più fastidio, era già stata espressa sul canale salernitano Lira Tv (detta Al Ja-Lira) dall’allora sindaco Vincenzo De Luca. Inaspettato compagno di battaglia dei grillini. Anzi, lo stesso invito dell’attuale governatore campano e dei vertici del M5S era stato lanciato molto tempo prima da un altro politico poco simpatico ai seguaci di Beppe Grillo: Massimo D’Alema. Il quale aveva per i giornalisti, categoria di cui aveva (a malincuore) fatto parte come direttore dell’Unità, un disprezzo che non riusciva a contenere. Tanto da dire appunto: «I giornali è meglio lasciarli in edicola».

Insomma, non c’è stato politico di potere (provvisorio, si capisce: provvisorio) che non si sia lagnato di come era trattato dai giornali. Bettino Craxi, per dire, arrivò a querelare Enzo Biagi: «Nella sua campagna diffamatoria senza soste, nella trasmissione del 16 febbraio 1995 ha affermato che la segretaria di Craxi “teneva nove miliardi nel cassetto”. Si tratta di notizia falsa già falsamente pubblicata e nuovamente diffusa da Biagi a scopo diffamatorio». Al che l’opinionista gli suggerì di estendere la querela «alla devota segretaria, signora Vincenza Tomaselli» che a processo aveva dichiarato di esser stata «titolare d’un conto bancario alla Cariplo di Milano per le spese di ufficio, conto su cui venivano versati fondi da Craxi e dalla direzione del Psi per una movimentazione totale di 8 miliardi e 975 milioni». Non pochi, per carte, graffette e pennarelli. Per non dire della querela di Ciriaco de Mita a Indro Montanelli. O dell’editto bulgaro di Silvio Berlusconi contro Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, accompagnato da una sfilza di intemerate intorno allo stesso tormentone: «i giornalisti italiani sono per l’85% comunisti o paracomunisti». O delle sparate di Umberto Bossi: «Bisognerebbe dare loro quattro legnate». «I giornalisti sono dei grandissimi stronzi. Degli Iago che raccontano bugie continuamente». «Bisogna che impariamo come un tempo a dare dei grandi passamano a quei delinquenti».

Brontolava Gianfranco Fini: «Tra i giornalisti che seguono la politica ci sono squali, squaletti da passeggio e innocui tonni. Ma queste stesse categorie esistono anche tra politici». Brontolava Matteo Renzi che si spinse perfino a un paragone con i caseifici di mozzarelle: «In questi giorni ci sono state più bufale sui giornali che in Campania». Brontolava più di tutti, come dicevamo, Massimo D’Alema che chiamava i cronisti «iene dattilografe» e spiegava che «i giornali scrivono un mucchio di fesserie, soprattutto perché le scrivono i giornalisti» e ghignava: «Il programma dell’Ulivo è di 500 pagine? Magari per i giornalisti lo riduciamo a cinque con le figure e in stampatello»… E via così. A ogni cambio di governo. Coi cronisti rompiscatole benedetti da chi sta all’opposizione, maledetti da chi sta al potere. Sempre. A parti via via invertite. Finché c’è un po’ di democrazia, ovvio. Poi le rampogne contro «pennivendoli e puttane», per usare le definizioni di un uomo sobrio e sapiente come Di Battista, cessano. Napoleone III ci scherzava su: «Non leggo i giornali, pubblicano solo quello che dico io…»

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