passaparola
17 maggio 2018

Berto, autore del Vangelo secondo Giuda e di una Morte a Venezia eterosessuale

Giuseppe Berto fu il più grande romanziere italiano del secondo ‘900. Nessuno è riuscito a raccontare come lui la storia di Gesù Cristo come fosse raccontata per la prima volta, neLa Gloria, che è il Vangelo secondo Giuda. Anonimo Veneziano, che è una Morte a Venezia eterosessuale e aznavouriana, è un romanzo da amare: il romanzo che Berto scrisse più di ogni altra sua opera

Lo scrittore Giuseppe Berto (1914-1978) il 28 agosto del 1964 dopo aver vinto il premio Viareggio con Il male oscuro

DUE ROMANZI COSÌ DIVERSI È RARO TROVARLI. Sono La Gloria, che è il Vangelo secondo Giuda, e Anonimo Veneziano, che è una Morte a Venezia eterosessuale e aznavouriana. La cosa incredibile è che due romanzi così differenti per ambientazione, stile, tono, contenuto, siano stati scritti dalla stessa mano, siano opera dello stesso autore. Un autore che i lettori di questa rubrica ormai dovrebbero conoscere bene: Giuseppe Berto, il più grande romanziere italiano del secondo ‘900 (non lo penso solo io e l’ha pensato per primo il Professore: Cesare De Michelis).
Berto pubblicò La Gloria nel 1978, l’anno in cui morì. Non credo che sia una coincidenza. È un libro ultimo, finale. Nessuno come Berto è riuscito a raccontare la storia di Gesù Cristo come se fosse raccontata per la prima volta. Il punto di vista è rovesciato, spiazzante. L’intreccio delle psicologie di Giuda e di Gesù mette il lettore al centro di un gioco di specchi. Il linguaggio ha una solennità interiore (mai esteriore, mai pomposa), una solennità sofferta, non voluta ma dovuta, che non fa mai da freno alla velocità (uno dei più grandi pregi di Berto) della narrazione.

LA GLORIA CHIUDE MAGNIFICAMENTE un’avventura iniziata nel 1947 con un avvenimento letterario come Il cielo è rosso. Proseguita con quel colpo di gran teatro del romanzo che fu nel 1964 Il male oscuro (a quest’ultimo proposito c’è da dire che torna nella Gloria il tema del rapporto padre-figlio duplicato, forse addirittura in maniera autoironica, nel rapporto di Gesù con i suoi padri).
La Gloria è un libro di rara altezza e intensità. Ed è anche un libro che conferma, con una citazione implicita, un mio vecchio sospetto: tra i grandi scrittori a lui contemporanei, Berto sentiva una forte e segreta concordanza con Saul Bellow. D’altronde mi è sempre parso strano che non si sia riflettuto a dovere su un fatto: Il male oscuro ed Herzog, capolavoro di Bellow, sono perfettamente coevi. Nel 1964 il romanzo italiano e quello americano correvano, grazie a Berto, alla pari, si misuravano su uguali distanze, tagliavano gli stessi traguardi. Questa rubrica, che temo di dover sospendere (vi farò sapere al più presto, non state in pensiero), ha basato parte della sua fortuna sulla sua natura profondamente sentimentale. Ecco, Anonimo Veneziano è un romanzo da amare. Nacque, lo racconta Cesare De Michelis nella nota a questa nuova edizione, come una sceneggiatura (mestiere “alimentare” frequentato da Berto non senza un certo divertimento), poi divenne un’ossessione (felice) dello scrittore. Continuò a lavorarci dopo l’uscita del film (un successone) con la regia di Enrico Maria Salerno, e anche dopo una trasposizione teatrale.

FORSE ANONIMO VENEZIANO è stato il romanzo che Berto scrisse più di ogni altra sua opera. Di certo fu quello che scrisse e riscrisse con maggiore piacere e abbandono. Chi dichiarava (come me) di amare Anonimo Veneziano si è esposto per anni al quasi generale ludibrio di quelli che lo hanno sempre considerato il succedaneo italiano di Love Story (che però era stato concepito dopo!). Anonimo Veneziano è un gran bel romanzo, «un piccolo classico» come scrive De Michelis. Per Elio Chinol, il cui pane quotidiano erano Shakespeare e Shelley: «Un piccolo capolavoro». Personalmente eliminerei l’aggettivo: Anonimo Veneziano è un capolavoro, un classico, è la Patetica di Berto (ven). Permettetemi di mettervi qui il finale come si mette un disco. Il protagonista, un musicista, dirige per l’ultima volta: «E lui attacca, la nota ferma, seguita con necessità e precisione dalle altre, nell’antico concerto che dice la rassegnata disperazione per la morte di un uomo, e forse d’una città, e forse anche di tutto ciò che è già vissuto abbastanza».

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