Passaparola
31 maggio 2018

Philip Roth ha raccontato così bene Philip Roth che ci ha fatti diventare tutti Philip Roth

PHILIP MILTON ROTH di Newark, New Jersey, diventò fulmineamente famoso nel 1969 con Lamento di Portnoy, un romanzo che seminò risate e scandalo, indignò i moralisti e procurò all’autore la nomea di grande amatore. Qualche anno dopo in Zuckerman scatenato, uno dei romanzi in cui Roth mette in parodia la sua esistenza travolta da una celebrità prossima alla persecuzione, lo scrittore ci ironizzerà sopra. Il protagonista del libro, Nathan Zuckerman (alter ego di Roth, come tanti altri suoi personaggi da Kepesh a Tarnopol, allo stesso Roth forse), è autore di Carnovsky, chiara metafora del Lamento. Un giorno Zuckerman, che ha appena divorziato, va ai grandi magazzini per comprarsi un letto nuovo. Ci si stende sopra per provarlo e di colpo una folla di plaudenti curiosi lo circonda per vedere da vicino l’impenitente autore di Carnovsky saggiare il materasso che sopporterà le sue future e multiple acrobazie erotiche. Philip Milton Roth, il più grande scrittore vivente (finalmente lo dicono tutti, ma per molto tempo lo diceva uno solo), è morto il 22 maggio a 85 anni e aveva il dono di una comicità che le prefiche di questi giorni hanno rischiato di far passare in secondo piano.

No, la sua comicità era in primo piano e coabitava con il sesso e con la morte. Questo era il suo cocktail e dava alla testa (e al cuore). Roth scriveva solo di se stesso (vedi gli alter ego di sopra) e ne era consapevole: «John Updike sa tante cose: di golf, pornografia, bambini, dell’America. Io non so nulla di nulla. L’eroe di Updike è un rappresentante della Toyota. Updike sa nei minimi dettagli cosa significhi essere un rappresentante della Toyota. Io, invece, vivo in campagna e non conosco nemmeno i nomi degli alberi». Vero, Roth non sapeva narrare un rappresentante della Toyota o come si colpisce una pallina da golf, sapeva narrare solo Philip Roth e lo ha fatto così bene che alla fine siamo diventati tutti Philip Roth. Ma non è del tutto vero che Roth inventava solo se stesso. Una volta, nello Scrittore fantasma, inventò Anne Frank. La sua Anne si ribella (un verbo che forse andrebbe ritirato dopo la morte di Roth, come si fa con i numeri di maglia dei campioni sportivi) al suo destino di “santa” dello Sterminio e vuole vivere come una ragazza normale. L’Anne di Roth ha rimosso il suo Diario, non si ricorda cosa c’era scritto. Allora prende in mano quel suo best seller involontario e lo legge e mentre lo legge si ricorda chi è.

La sentite la forza tellurica di questa scena? Scriverla avrebbe spezzato i polsi di quasi tutti gli scrittori. Di quasi tutti, ma non del ragazzo prodigioso di Newark, New Jersey, che ha saputo raccontare il desiderio e l’agonia (Il teatro di Sabbath e L’animale morente), i figli, le figlie e i padri (Patrimonio e Pastorale americana), l’adolescenza e la peste (Nemesi), come ballando uno swing su una veranda una sera. Una volta Roth descrisse il suo treno di vita: «Vivo da solo, non c’è nessuno di cui io sia responsabile, a cui debba rispondere di quello che faccio o con cui debba passare il tempo. Decido i miei orari. Di solito scrivo tutto il giorno, ma se voglio tornare nel mio studio la sera, dopo cena, posso farlo: non sono costretto a star seduto in salotto perché qualcun altro ha passato la giornata da solo. Se mi sveglio alle due di notte e mi viene in mente un’idea, accendo la luce e scrivo in camera da letto. Lavoro, sono sempre reperibile. Sono come un dottore di un reparto di medicina d’urgenza. E sono anche il caso urgente». Philip Roth, Alexander Portnoy, Nathan Zuckerman, David Kepesh e Peter Tarnopol, grazie a tutti voi.

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