Un tè (e biscotti della salute) con Enrico Berlinguer, l’ultimo leader rosso

di Paolo Franchi

Lo conobbi quando ero un ragazzo militante. Con la sua morte finirono la storia del Pci, il più grande partito comunista occidentale, e la mia età giovane. Timido e introverso (Parlato lo chiamava “il sardomuto”) fu più vicino a Togliatti di chiunque altro

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Enrico Berlinguer nel 1980 al Lingotto, Torino, durante lo sciopero contro i licenziamenti alla Fiat che si concluse con la “marcia dei quarantamila” quadri aziendali e una sconfitta storica per il sindacato. Nato a Sassari nel 1922, divenne segretario del Partito comunista nel 1972 e lo restò fino alla morte, avvenuta nel 1984

A cent’anni dalla nascita Enrico Berlinguer è stato ricordato, tranne rare eccezioni, con toni che vanno dal nostalgico al (dichiaratamente) celebrativo. La nostalgia, in chi, come nel mio caso, il suo tempo lo ha vissuto da giovane, si capisce: al fascino del “come eravamo” è difficile resistere. La celebrazione un po’ meno: giurerei che sarebbe stato il primo a rifiutarsi di essere rappresentato come un santino. Almeno per come lo ho conosciuto io. Prima da dirigente della federazione giovanile del Pci, poi da giornalista comunista e infine da cane sciolto e, soprattutto, da giornalista punto e basta.
La prima prova importante che dovette affrontare, divenuto segretario in pectore perché Luigi Longo era stato colpito da un ictus, fu l’elezione del presidente della Repubblica. Andò male. Aveva puntato tutte le sue carte su Aldo Moro, e invece la vigilia di Natale del 1971, alla ventitreesima votazione, fu eletto, con i voti determinanti del Movimento sociale, Giovanni Leone. Dovette tirare le somme dell’operazione fallita davanti a un comitato centrale (io c’ero, nella delegazione dei giovani) alquanto malmostoso. Quando disse che il Pci aveva sottovalutato il ruolo della massoneria, si levò un brusio di sorpresa, e pure di fastidio. Probabilmente aveva ragione lui (della P2 ufficialmente si seppe quasi dieci anni dopo), ma il parlamentino comunista mugugnò come se avesse detto che non si erano tenuti nel giusto conto gli intrighi dei marziani. E qualcuno tra i più anziani, nei corridoi, lasciò intendere che magari Berlinguer sull’argomento era più preparato degli altri: non era forse in odore di massoneria suo padre, il grande avvocato antifascista e socialista Mario, che lo aveva raccomandato a Palmiro Togliatti per consentirgli, parola di Giancarlo Pajetta, di «iscriversi giovanissimo alla direzione del partito»?

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Umorismo sardo

Invece i giovani comunisti (io, a dire il vero, meno di altri) lo apprezzavano assai. Per i suoi gusti, pure troppo. Al congresso di Firenze della Fgci, marzo 1971, delegate e delegati lo osannarono a lungo, levando alto il pugno, al grido: «Evviva/il grande/partito comunista/ di Gramsci/Togliatti/Longo e Berlinguer!». Lui, dalla tribuna, li guardò prima stupito, poi visibilmente infastidito, e li esortò pure, senza successo, a smetterla. Perché gli era estraneo, e inviso, il culto della personalità, certo. Ma pure per via della sua ritrosia e della sua timidezza. Che lo rendevano amabile, anche perché non erano disgiunte da una vena quasi impalpabile di ironia e pure, va aggiunto, da un particolarissimo senso dell’umorismo, quanto sardo e quanto british non saprei. Eravamo di nuovo a Firenze, per non so più quale convegno. Ci portarono a cena in un ristorante che non c’è più da un pezzo, in via degli Orti Oricellari, gli ero seduto accanto. Il maître, in tutta evidenza un compagno, gli espose a lungo, con dovizia di particolari, il ricco menù. Berlinguer lo ascoltò attento. Solo alla fine gli disse con un sorriso: «Grazie, ma vorrei solo del tè con dei biscotti». Il compagno maître non si perse d’animo, e gli propose un elenco infinito di dolci, gelati, sorbetti, semifreddi. Dall’espressione del volto mi sembrava di poter arguire un notevole interesse, e pure una certa indecisione tra le tante scelte possibili. Ma alla fine, sempre sorridendo, infierì: «Grazie, e complimenti. Ma io vorrei dei biscotti della salute. Possibilmente Gentilini». Riservato. Schivo. Introverso.

Stima e prestigio

Nei suoi primi anni da segretario il “sardomuto”, come lo aveva definito con l’abituale ferocia Valentino Parlato, era molto stimato dai “quadri” del famoso “apparato del partito”, in generale brave persone, non grigi burocrati stalinisti, che lo consideravano uno dei loro, molto meno dai giornalisti (compresi alcuni comunisti, a cominciare dal mio maestro Aniello Coppola) e dal grande pubblico. Il suo prestigio crebbe assai, ovviamente, con le grandi vittorie elettorali del 1975 e del 1976, e fu appena scalfito dal fallimento della politica di unità nazionale e più in generale del compromesso storico, drammaticamente sancito dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro, il suo unico, vero interlocutore politico, che però non esitò a sacrificare in nome della più assoluta fermezza nella lotta contro il terrorismo. Bettino Craxi mi raccontò di avergli chiesto a quattr’occhi, in uno di quei terribili cinquantacinque giorni, il perché di tanta irremovibilità: «Eravamo soli nel cortile di Palazzo Chigi, lui, ricordo, era appoggiato alla portiera della sua automobile. Gli dissi che capivo bene la posizione comunista, ma non capivo perché il Pci contrastasse così ferocemente la sola idea che altri, in primo luogo noi socialisti, provassero a cercare una strada per salvare la vita del prigioniero. Mi rispose che era in gioco la sicurezza dello Stato».

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Lui e Togliatti

Sin dai suoi primi passi in politica Berlinguer era stato quello che si diceva un homo togliattianus. Lo rimase a lungo, ben oltre la morte di Togliatti. La stessa proposta del compromesso storico, che pure fu considerata una clamorosa svolta, era in realtà uno sviluppo a suo modo coerente della strategia indicata dal Migliore fin dal 1944. E la politica di unità nazionale (1976 - 1979) ne era una variante. Morto Moro, tutto questo non stava più in piedi, ma una strategia di ricambio non c’era, a meno che il Pci non si risolvesse a fare i conti con la storia, mettendo in discussione la propria identità comunista (originale, originalissima, sì, ma pur sempre comunista) e avvicinandosi a tappe forzate al movimento socialista europeo. Ma questo Berlinguer, «comunista per fedeltà agli ideali della giovinezza», non intendeva assolutamente farlo. E non solo perché il movimento socialista, in Italia, era il Psi di Craxi: le socialdemocrazie, lo ripeté un’infinità di volte, quando non si limitavano a gestire il sistema capitalistico tutt’al più lo ritoccavano in questo o quell’aspetto, mentre dal capitalismo bisognava «fuoriuscire».

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Terza via e questione morale

Giusta o sbagliata che fosse (io la ritenevo sbagliatissima, tanto è vero che quando si delineò con chiarezza, correva l’anno 1981, lasciai nello stesso tempo Rinascita e il partito), questa posizione consentiva sì di fare propaganda, ma non di fare politica. Tanto più adesso che stavano entrando in una crisi che si sarebbe presto rivelata senza sbocchi tanto il socialismo reale quanto la democrazia dei partiti della Prima Repubblica. Berlinguer ne era, credo, consapevole, anche perché sapeva, a differenza degli altri leader dell’epoca, che ci sono momenti storici in cui la politica assume anche una dimensione tragica. Ma non aveva risposte efficaci. Portò il suo partito sino alle colonne d’Ercole del comunismo, ma non le varcò compiutamente, preferendo mettersi in caccia di chimere, come un’inesistente «terza via» tra socialdemocrazia e comunismo, e brandire come una clava contro tutti gli altri partiti (il Psi ovviamente in testa) una «questione morale» da cui solo il Pci sarebbe stato indenne. E fino all’ultimo, anche se di compromesso storico non parlava più, cercò di tenere in vita un dialogo riavvicinato con la Dc di Ciriaco De Mita per sbalzare da Palazzo Chigi quel Craxi che, a suo giudizio, rappresentava «un pericolo per la democrazia».

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Il saluto di Sandro Pertini ai Funerali di Enrico Berlinguer

Le lacrime

Tutto questo lo fece con una passione, e anche con un tormento individuale oggi impensabili, che rendono meritati tutti gli omaggi che gli sono stati tributati. Il mio, per quel niente che vale, fu un incontenibile pianto, per lui e per la mia giovinezza che se ne andava definitivamente, quando appresi del male che lo aveva colpito. Quanto Berlinguer fosse rispettato, e anche amato, ben oltre i confini del suo partito lo si capì forse solo nei giorni della sua agonia (Padova, 7 - 11 giugno 1984), di fronte alla folla gigantesca che partecipò ai suoi funerali (gli ultimi grandi funerali politici della storia repubblicana), e più ancora quando, pochi giorni dopo, il Pci, nelle elezioni europee, sorpassò per la prima e l’ultima volta la Democrazia cristiana. Il tributo dedicato dalla maggioranza degli italiani al combattente politico caduto sul lavoro nel fuoco di una lotta per la vita o per la morte fu sicuramente sincero. Ma scoprimmo presto (non tutti, qualcuno ci mise più tempo del dovuto, qualcun altro non se ne accorse mai) che si era trattato soprattutto di un’appassionata, e meritatissima, testimonianza. Perché un berlinguerismo senza Berlinguer era letteralmente impensabile. Il suo carisma personale e politico aveva rappresentato, per apparente paradosso, una formidabile risorsa esterna per attutire la portata di una crisi già aperta da anni. Con la sua morte, iniziò, simbolicamente e non solo, la fine del più grande e prestigioso partito comunista d’Occidente.

4 luglio 2022 (modifica il 4 luglio 2022 | 11:25)