5 maggio 2018 - 21:20

Fiorello, prove di ritorno in Rai: «Forse uno show a novembre»

L’artista ospite al Festival della tv e dei nuovi media: «Non ho paura di tornare in tv, il problema è che sono pigro. Dopo le elezioni a viale Mazzini c’è il periodo trolley»

di Renato Franco, inviato a Dogliani (Cuneo)

shadow

In attesa di rivederlo in tv («magari a novembre, mi piace il lunedì»), il Fiorello Show va in onda al Festival della tv e dei nuovi media che si chiude domenica a Dogliani. Non ha bisogno di scenografia, orchestra e ospiti, gli basta il suo cellulare per fare spettacolo: «Ho i numeri di telefono di tutti, è sufficiente la mia rubrica per fare un programma televisivo. Abatantuono, Accorsi, Adriano... sì è lui. Agnelli, quanti ne ho di Agnelli... questo lo hanno arrestato. Ho anche Afef, ma è una cosa vecchia», assicura per tranquillizzare la moglie. Chiama Linus: «Proviamo a vedere se risponde, lui è sempre in bicicletta. Oggi ha fatto 100 chilometri, io manco con il motorino ci riesco». Sorprende anche Urbano Cairo: «Sono con Aldo Grasso, uno dei tuoi ragazzi». Morandi non risponde: «Sono le sette di sera, è già a letto. Dovreste invitarlo qui a Dogliani, con lui risparmiate, arriva di corsa e dorme all’addiaccio». Il dg della Rai Orfeo invece prende l’iniziativa e chiama lui Fiorello: «Guardo la partita della Juve e poi preparo gli scatoloni».

Il riferimento è alle elezioni che hanno sempre ripercussioni sulla Rai. Fiorello ne approfitta: «A viale Mazzini aspettano che si formi il nuovo governo per capire che fine fanno. Io lo chiamo il periodo del trolley, tutti i direttori sono con la valigia in mano: adesso arriva Rocco Casalino e li manda via tutti». Non manca la politica: «Scusate ma vado di fretta, lunedì ho le consultazioni, mi ha chiamato Mattarella, mi ha detto che si è proprio scassato. Vediamo cosa fa Di Maio, il toy boy di Orietta Berti. Magari ora chiamo Renzi — ce l’ho il numero, li ho tutti — ma forse in questo momento è meglio lasciar stare: chi lo tocca muore». Il critico televisivo del Corriere prova a fargli qualche domanda, ma lui è un fiume in piena, uno spunto si porta dietro un monologo, riesce a imbastire anche uno sketch sulla visita dall’urologo. Ipocondriaco convinto («solo Verdone mi batte») sa tutto di medicina: «Me ne intendo come un primario, ho avuto qualunque cosa in qualunque parte del corpo. In effetti non so come faccio a essere ancora vivo».

La domanda che tutti gli fanno è una: quando tornerà in tv? «Non è che ho paura, il problema è che sono pigro, tutto quello che ho fatto ultimamente non mi impegnava molto. Per fare L’Edicola su Sky mettevo l’auto in folle e arrivavo in fondo alla discesa di casa. Ora sto facendo la radio da casa mia. Sarei dovuto andare a Radio Deejay, all’Eur, ma l’Eur è lontano da tutto, in qualunque parte di Roma tu viva, è lontano anche per quelli che stanno all’Eur». Ricorda l’ultimo Sanremo: «Avevo un’ansia che non potete capire, non sarei mai andato senza l’sms che mi mandò Baglioni. Lui è un poeta, anche se non capisci mai cosa dice: puoi prendere un suo sms, mettergli un po’ di musica sotto e va in classifica al numero uno. Era bello anche il backstage del Festival: ogni 5 minuti incontravi un Pooh. Sanremo lo presenterei, però levatemi i cantanti: io devo fare lo show, perché in fondo io porto me stesso sul palco. Comunque vedo che in Rai fioccano le idee: ora c’è La Corrida, poi arriva Portobello». Si fa serio a modo suo quando stigmatizza la rabbia dei social, la percezione che chi fa spettacolo rubi i soldi: «Scrivetelo. Non voglio una lira, non vi azzardate a pagarmi. Se mai sono loro a pagarmi, io non chiedo niente». Allude alla polemica del 1° Maggio: «Comunque la giacca che indosso costa molto di più del maglioncino sfigato di Ambra».

È anche stata la giornata dei Big Data — l’utilizzo dei nostri dati personali, l’oro nero del nostro tempo — tema affrontato nell’incontro moderato da Sarah Varetto (direttrice di Sky Tg24) che ha coinvolto i direttori Fontana (Corriere), Calabresi (Repubblica), Molinari (La Stampa), Contu (Ansa) e Cerasa (Il Foglio). La discussione parte dalle interferenze russe: quanto hanno pesato sulle elezioni americane? La convinzione generale è che Trump non ha vinto per la campagna russa sui social media, così come il Movimento 5 Stelle non ha vinto al Sud grazie ai troll sulla rete. L’azione sui social piuttosto serve a creare un clima di rabbia e protesta su temi sensibili, punta a destabilizzare, insomma Facebook e Twitter sono strumenti pervasivi, utilizzati per distorcere il dibattito pubblico. Il problema è che se l’informazione passa solo su Facebook mette a rischio il sistema democratico occidentale.

Due punti trovano tutti d’accordo. Basta all’anonimato, sì alla responsabilità editoriale, perché Facebook non può comportarsi come se fosse una piattaforma neutra visto il ruolo che ormai riveste nella diffusione delle notizie e nell’informazione. L’altro aspetto è che anche noi siamo responsabili perché la tutela della nostra privacy sembra un tema che non ci interessa. Troppo spesso siamo leggeri nel dare il nostro consenso, inoltre ci illudiamo di partecipare al dibattito politico mettendo qualche like, quando in realtà quel dato serve a costruire il nostro profilo. L’ultima riflessione è inquietante: a Facebook bastano 70 like per conoscerci meglio dei nostri amici, con 300 «mi piace» sa più cose su di noi di quante ne sappiamo perfino noi stessi.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT