31 ottobre 2018 - 17:26

Il realismo senza ombre
e allegorico di Donnellan

«La tragedia del vendicatore»: in un crescente vortice frenetico tutti ammazzano tutti

di Franco Cordelli

Il realismo senza ombre e allegorico di Donnellan
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Per il suo La tragedia del vendicatore, in scena allo Strehler di Milano, Declan Donnellan riferisce di due mondi in contraddizione tra loro. Quando il testo fu scritto, all’inizio del Seicento, l’Italia era un luogo proibito. «L’Europa cattolica rappresentava, per gli inglesi protestanti, un altrove simile a quel che la Russia sovietica incarnava quando eravamo ragazzi». E altrove: «La tragedia parla di consumismo? Sì. Il consumismo non ha intaccato l’animo umano dai tempi, i più remoti?». Ma si può pensare alla Russia sovietica come a un paese consumista? È la contraddizione che c’è tra il passato di un testo attribuito a Cyril Tourneur almeno fino al 1970 — quando lo mise in scena Ronconi, in una nouvelle vague elisabettiana — e l’oggi che lo si riporta a Thomas Middleton, dallo stesso Ronconi riscoperto nel 1966 con I lunatici, e da sempre sospettato autore del testo in quanto (dice Eliot) poeta la cui grandezza «non è quella di una peculiare personalità, ma di un grande artigiano dell’epoca elisabettiana». La ricezione dello spettacolo sembra aver accettato serenamente questo passaggio da Tourneur a Middleton: e da un punto di vista filologico sarà pur così, ma da un punto di vista esistenziale la faccenda (almeno per noi che gli spettacoli di Ronconi li vedemmo) non è affatto serena. Ci vediamo strappata di mano la leggenda di Tourneur, che lo stesso Eliot nei Saggi elisabettiani e Praz nei suoi Studi e svaghi inglesi accolgono con il beneficio del dubbio e tuttavia con letizia.

Come avrebbe potuto dedicare a Tourneur quella sua strabiliante «vita immaginaria» Marcel Schwob scrivendo che le sue gesta «indicano un ateismo vendicativo»? A Tourneur ora non resta che La tragedia dell’Ateista e desolato sta sul fondo di una scena per altro bellissima: ante scorrevoli di legno rosso-brunito si aprono e lasciano intravvedere immagini di Tiziano e di Piero della Francesca. Esse uniscono e separano il vecchio mondo italiano e il mondo nuovo globale. Che questo sia simile all’antico mondo, ma oggi unico e solo, lo rivela più efficacemente che l’azione si svolga per intero in avanscena e lungo una linea orizzontale. Al di là dei pochi elementi simbolici (quel teschio, quel minuto di sesso esasperato, la non felice apparizione di una cinepresa nel finale) il senso concettuale e formale dello spettacolo è allegorico: viene dall’insieme, un tutt’uno racchiuso nella parola Vendetta (vendetta, va da sé, come nostalgia; la vendetta di Vindice contro il Duca che ha stuprato e ucciso la sua fidanzata) scritta all’inizio e alla fine delle due ore su quei legni rossi di sangue.

In un crescente vortice frenetico tutti ammazzano tutti, tutti muoiono: non in un mondo rock, pop, trash, ma in un mondo realistico come, per fare un esempio contemporaneo, in Suburra di Stefano Sollima. L’unica differenza è che nel film il realismo è realistico, nel potente spettacolo di Donnellan (che lascia dileguare dal Piccolo le ombre di Strehler e Ronconi) il realismo è allegorico.

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