1 gennaio 2019 - 20:36

«Mowgli», il regista Andy Serkins racconta le insidie della giungla

Su Netflix il film realizzato con la tecnica della motion capture. Serkins: «Ho attualizzato il racconto di Kipling. In “Mowgli” tante somiglianze con le paure di oggi»

di Paola De Carolis

«Mowgli», il regista Andy Serkins racconta le insidie della giungla
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LONDRA Un Mowgli alle prese con temi come l’appartenenza alla comunità, la diversità, la violenza. Il piccolo uomo della giungla cresce. Nel film di Andy Serkis — a disposizione su Netflix — le canzoni e il senso di sicurezza del lungometraggio originale lasciano il posto alle incertezze e alle insidie dei racconti di Ruyard Kipling così come dei nostri tempi. «Quali sono le regole della società? Chi le decide? Chi è dentro e chi è fuori? Questi sono i quesiti al centro della prosa di Rudyard Kipling — racconta Serkis —. Non potevano non esserci somiglianze con la situazione odierna, la paura di ciò che è diverso da noi, dello straniero».

È proprio ai racconti raccolti nei due Libri della giungla che si deve l’aspetto indubbiamente più cupo e serio della nuova pellicola. «Kipling, così britannico eppure così straniero, cresciuto in India e poi spedito in collegio in Inghilterra, dove non si sentì mai pienamente a casa, è un personaggio complicato, un autore amato e allo stesso tempo un controverso figlio dell’impero, con opinioni indubbiamente razziste. Sarebbe stato assurdo non mantenere nel film l’idea della colonizzazione dei bianchi nei confronti della popolazione indigena, oltre che la minaccia che il genere umano rappresenta per l’habitat degli animali». Come nei libri, non ci sono buoni e cattivi: «È ciò che Mowgli è costretto a capire. Non può fidarsi. Ogni essere ha priorità diverse».

Gli animali dotati di espressività umana sono, come era prevedibile, tra i punti forti del film di Serkis che, negli anni, da pioniere è diventato uno dei massimi esperti della performance (o anche motion) capture, una procedura che, in parole povere, permette di costruire un essere attorno all’interpretazione e ai movimenti di un attore. Se in passato gli hanno permesso di distinguersi con il Gollum de «Il signore degli anelli» così come i gorilla de «Il pianeta delle scimmie», le applicazioni presenti e future sono infinite: «È una tecnica che viene sfruttata per i giochi al computer così come per il teatro. Recentemente con la Royal Shakespeare Company siamo riusciti a utilizzarla anche in diretta, sul palcoscenico, in “La Tempesta”». Per Mowgli era essenziale trovare la formula giusta. «Non volevo animali che sembrassero troppo realistici. Allo stesso tempo mi servivano creature che fossero credibili. La difficoltà è stata proprio nel trovare quel giusto equilibrio», anche per fare onore a un cast d’eccezione: Cate Blanchett, Benedict Cumberbatch, Christian Bale, Freida Pinto e il giovane Rohan Chand nel ruolo del protagonista.

L’iter che ha portato alla realizzazione del film non è stato facile o scontato. Serkis ha cominciato a lavorare al progetto diversi anni fa. Dapprima la pellicola faceva parte della scuderia Warner, che prevedeva l’uscita nelle sale. Solo recentemente, anche perché nel frattempo era stato realizzato e distribuito il «Libro della Giungla» di Jon Favreau, è stato venduto a Netflix. Come ha preso lo sviluppo Serkis? «Come un’opportunità in più. Mi piace l’idea di poter raggiungere simultaneamente centinaia di milioni di persone in 190 Paesi. Il nostro, tra l’altro, non è mai stato un film “da popcorn”. Per il mercato del cinema Usa, ad esempio, sarebbe stato troppo dark». Per Serkis ha rappresentato un impegno non indifferente. È regista, produttore, co-autore oltre che interprete del film. Un’esperienza stressante? «In un certo senso lo sono tutte. Sicuramente ho imparato tanto». Prossima fatica: «La fattoria degli animali» di George Orwell. «Da un figlio dell’impero a un altro».

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