1 settembre 2018 - 22:14

«Suspiria», le donne horror di Guadagnino fanno discutere Venezia

Il regista si allontana da Dario Argento. Più psicologia e allusioni politiche: «Ritratti di figure tormentate, mai sconfitte»

di Paolo Mereghetti

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Un «film sul terribile: nei rapporti personali, nel femminile e nella Storia». Così Luca Guadagnino riassume il senso del suo «Suspiria», remake a quarantun anni di distanza del film di Dario Argento, forse quello avvolto dall’aria più mitica, anche per merito della fotografia di Luciano Tovoli che col suo Technicolor TriPack trasformava le scene in incubi a occhi aperti. Guadagnino si affida invece (come per i suoi ultimi film) alle immagini del thailandese Sayombhu Mukdeeprom ma soprattutto al montaggio di Walter Fasano e alle musiche di Thom Yorke (Radiohead) per trovare quelle atmosfere di tensione e di angoscia che attraversano il film e lo differenziano dall’originale.

Anche qui c’è una giovane americana, Susie (Dakota Johnson), che viene in Europa per fare la ballerina, ma a Berlino non a Friburgo, e per entrare nella compagnia guidata da Madame Blanc (Tilda Swinton), non solo per frequentare una scuola. La differenza di partenza tra remake e originale è fondamentale per entrare nello spirito del film (centrato sul confronto estenuante e rigoroso del proprio corpo con una disciplina che chiede di misurarsi con quello che ognuno si porta nel profondo e che può emergere grazie al carismatico potere della maestra/coreografa) ma anche per innescare una serie di «bracci di ferro» tra razionalità e sogni, tra ambizioni e incubi. Così è per la situazione politica (siamo nel ’77 al culmine dello scontro tra Stato e Raf con il sequestro Schleyer: da una parte la protesta degli studenti, dall’altra la repressione della polizia) e per la capacità di capire le proprie paure, come dovrebbe fare lo psicoanalista interpretato da Lutz Ebersdorf che utilizza la ragione per affrontare le angosce delle ballerine, prima Patricia (Chloë Graez Moretz) poi Sarah (Mia Goth), ma non è capace di usarla per tenere a bada il proprio senso di colpa verso quello che è successo ai tempi del nazismo.

In questo modo quello che in Argento era la scoperta da parte di Jessica Harper (cui Guadagnino ha affidato il ruolo cameo della moglie dell’analista) di una mostruosità fuori da sé — la direttrice/strega Helena Markos — qui diventa il confronto con la mostruosità che abita dentro di sé, a cominciare da Susie che la mamma mennonita definiva «il seme del male sparso nel mondo». E che Guadagnino fa emergere poco a poco, stemperandola dentro il ritratto di «una donna non riconciliata e mai sconfitta, come le eroine di Fassbinder che proprio negli anni Settanta attraversavano l’immaginario tedesco e poi europeo». La forza del film è soprattutto qui, nella progressiva scoperta di un potere che all’inizio non è evidente ma che lo spettatore inizia a intuire nella inquietante scena in cui il ballo aggressivo e violento di Susie agisce «a distanza» sul corpo di Olga (Elena Fokina) chiusa in un’altra stanza, «colpevole» di aver iniziato a dubitare della vera natura delle sue insegnanti. E che poi cresce fino al sabba del prefinale, dove il gusto per il grandguignol prende le forme di un satanico balletto fatto di corpi nudi e spruzzi di sangue (opera, come tutte le altre coreografie, di Damien Jalet).

Naturalmente la paura che crea il film non è quella del jumpscare, del salto sulla sedia, ma piuttosto quella insinuante che mette in discussione le certezze: che donne sono quelle che popolano questa versione di «Suspiria»? Che cosa può fermare la loro aggressiva determinazione? Se Dario Argento chiudeva il film con un massacro liberatorio, Guadagnino (e la sceneggiatura di David Kajganich) evita di dare risposte, anzi gioca con le contraddizioni, come fa con il destino di Madame Blanc, che sembra pagare l’amore (materno? saffico?) che prova per Susie. Resta l’interrogativo più difficile: come reagirà il pubblico (soprattutto femminile) che ha decretato il successo di «Chiamami col tuo nome», di fronte a un film che imbocca un percorso totalmente diverso, sospeso tra cult e horror giovanilista? Ma forse è una domanda da non porsi, prigionieri come siamo di una logica «d’autore» che vede nella coerenza dei temi e dello stile il metro d’analisi e di giudizio. Forse, invece, il cinema italiano ha proprio bisogno di un autore che insegua una sua programmatica incoerenza, alla ricerca del piacere anche un po’ fanciullesco del «fare cinema» e che vede nella varietà e nelle contraddizioni la chiave privilegiata del suo percorso registico.

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