13 ottobre 2018 - 17:05

Mondiali volley femminile: come giocano Giappone e Serbia (e cosa deve fare l’Italia per batterle)

Via alle final six: le azzurre in campo lunedì alle 12.20 contro le padrone di casa. Guida alle partite decisive di un torneo finora senza sconfitte per la squadra di Mazzanti

di Sandro Modeo

L’Italia ai Mondiali di volley in Giappone (Afp) L’Italia ai Mondiali di volley in Giappone (Afp)
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Come avesse introiettato uno degli adagi-must di Julio Velasco («i vincenti trovano soluzioni, i perdenti cercano alibi»), il team-Italia non sembra voler sentir ragioni: a questo punto (Final Six), bisogna essere in grado di battere qualsiasi avversario e in qualsiasi condizione. Non c’è dubbio però, che una formula grottesca - come già nel Mondiale maschile - presenti chiare sperequazioni: ci sono squadre che hanno un giorno di riposo tra un match e l’altro (Cina e Serbia), altre che giocano nelle prime due giornate e hanno il riposo prima dell’eventuale semifinale (Usa e Giappone), altre ancora che ne giocano due di fila «a ridosso» dell’eventuale semifinale (Olanda e proprio l’Italia). Le azzurre, in dettaglio, giocheranno alle 12.20 (italiane) di lunedì contro il Giappone e alle 9.10 di martedì contro la Serbia: di fatto, più o meno 16 ore di recupero. È vero che rispetto al Mondiale maschile ci sono due giorni di cuscinetto prima delle semifinali; ed è vero che proprio i vincitori del Mondiale maschile (l’incontenibile Polonia di Kurek) hanno vinto giocando 4 partite in 4 giorni (le due della terza fase, la semifinale e la finale). Ma sembra l’eccezione che conferma la regola: l’Italia è obiettivamente il team con la peggior scaletta in rapporto al recupero psicofisico. Non è un alibi ma una constatazione. Detto questo, entriamo in una Final Six di livello altissimo nonostante la caduta di superpotenze come Russia e Brasile, tutte e due in realtà a conferma di un trend non esaltante nell’ultimo biennio, anche se la Russia ha l’attenuante non generica dell’infortunio in corsa della sublime Goncharova. È un intreccio di Europa (Italia, Olanda, Serbia), Asia (Giappone e Cina) e Americhe (Usa), in cui noi (pool G) siamo con Giappone e Serbia (nell’H Olanda, Cina, e Usa). Proviamo ad analizzare il nostro momento e gli avversari immediati, tenendo conto in primis che i precedenti più prossimi (Nations League) ci hanno visto perdere col Giappone e vincere con la Serbia, in tutti e due i casi per 3-2, a esprimere un marcato equilibrio di forze in campo.

Italia

Tutto si è detto e scritto su questa next-gen multinazionale (che rischia di trasformare il futuro in presente in pochi giorni) e delle tante storie intense dietro ogni giocatrice, come quella di Miriam Sylla (vedi il pezzo di Eleonora Cozzari). Così come molto si è detto e scritto sul lavoro in Nazionale di un tecnico - Davide Mazzanti - capace di vincere tre scudetti con tre club diversi (Bergamo, Casalmaggiore - il suo vero capolavoro - e Conegliano). Un lavoro innovativo, in particolare, su due fronti. Su quello hi-tech, con l’introduzione di tante novità (ben spiegate da Gian Luca Pasini sulla Gazzetta): app per il coaching personalizzato delle atlete col loro feedback di gradimento (stelline) e eventuali correzioni; focus video tecnico-tattico sulle avversarie più forti; monitoraggio delle sedute con 4 telecamere e i sensori di accelerazione su ogni atleta (grandi come monete da 2 euro) per misurare la velocità dimensionali di spostamento (in altezza, laterale, avanti/indietro). E soprattutto sul versante filosofico-psicologico, che prevede una costante partecipazione attiva delle ragazze all’idea di gioco e alle soluzioni specifiche da trovare in fieri in partita.

È una concezione (non nuova in altri sport e che nel volley è stata introdotta dal solito Velasco, non a caso incontrato da Mazzanti in una cena-fiume pre-Mondiale) tesa a sollecitare nella squadra e nel singolo, allo stesso tempo, maggior creatività e maggior senso di responsabilità, il tutto ben condensato in certi timeout in cui il tecnico tace e le atlete «si confrontano» tra loro (in altri - secondo il momento - la «guida» viene ripristinata e il tecnico indica deficit e soluzioni). Ed è proprio questa partecipazione attiva a poter «prevenire» o correggere (o almeno a poterci provare) situazioni di impasse di squadra, psico-agonistica prima che tecnica, il famigerato «choking» o «soffocamento»: se la mente (il cervello) è impegnato in un continuo problem-solving, difficilmente verrà bloccato da paure latenti (indotte dalla forza dell’avversario, dall’ansia di obbedire a ordini meccanici e «gerarchici» del coach, e così via).

Una prova si è avuta nella partita con la Russia, quando le azzurre (perso il primo set e sotto nel secondo, 4-9 e poi 12-17), riuscivano a riemergere dal pozzo fino a girare il match e a ritrovare la loro continuità e convinzione, con i 29 punti finali di una Paoletta Egonu (all’inizio afasica) e ben 15 muri di squadra. In tutto questo, una precisazione. Per riuscire a «improvvisare» con efficacia bisogna avere uno spartito solido, non un canovaccio approssimativo. Fuori metafora: la creatività individuale e di gruppo di questa Italia dipende dalla quantità e varietà della «memoria di lavoro» depositata nell’inconscio operativo delle ragazze: dalla cassetta degli attrezzi (dal set di soluzioni tecnico-tattiche) costruite in mesi di conoscenza reciproca. Una cosa è certa. Anche per l’incidenza del metodo-Mazzanti, il team è cresciuto nell’insieme (nell’interazione posizionale e agonistica) e in tante atlete singole: tra queste, un’Anna Danesi sempre più costante e incisiva a muro. E ha visto crescere la loro polivalenza, la capacità di migliorarsi su tutti i fondamentali; qui il simbolo è una Lucia Bosetti mai così duttile e decisiva anche nel «lavoro oscuro»(ricezione precisa, muri «sporcati», difesa). Se riuscirà a protrarre per i giorni restanti lo stato di grazia delle 9 vittorie su 9 (il rapporto di intensità-continuità di gioco), l’Italia potrà arrivare (almeno) a podio.

Giappone

Quando si parla di team asiatici, è bene ricordare che si tratta di Paesi in cui il volley è arrivato prestissimo e prestissimo ha dato contributi tecnico-tattici decisivi: esempio-clou, Manila, dove il gioco arriva già a fine ’800 (grazie a un insegnante americano di Educazione fisica) e attecchisce al punto da far inventare ai filippini nientemeno che la «schiacciata». E già negli anni 30 del ’900. il volley è sport egemone in Cina come in Giappone. Il Giappone, nel dettaglio, (il Paese, non dimentichiamolo, della Mikasa, «la» fabbrica dei palloni di volley) è protagonista di una dei cicli più esaltanti della storia di questo sport, quando - tra gli anni 60 e 70 - vince tutto sia a livello maschile (3 medaglie olimpiche in crescendo: bronzo ’64, argento ’68, oro, ’72, più 2 bronzi Mondiali) sia, soprattutto, femminile (2 ori olimpici - ’64 e ’76 - e 3 Mondiali- ’62, ’67 e ’74-).

Il punto è che risultati simili vengono ottenuti all’interno di un progetto avanguardistico in grado di coinvolgere tutto il «movimento»: progetto che ha come artefice Yasutaka Matsudaira, c.t. delle te medaglie olimpiche e uno dei coach più rivoluzionari di sempre. Giocatore per 20 anni e in vecchiaia «grande saggio» della Federazione (la Jva), Matsudaira (scomparso nel 2011) paragona una squadra di volley a un’orchestra di cui il coach è il direttore (metafora familiare al calcio, vedi il «calcio totale» dall’Olanda al Milan di Sacchi): orchestra nel senso che i 6 giocatori devono «pensare insieme» come le 6 sotto-parti di un’unica «mente-alveare». In quest’ottica, il «timing» conta quanto la «posizione»: infatti, il brand del suo coaching - oltre a un amalgama inedito dei giocatori e a un’impressionante continuità/contiguità delle fasi di gioco - è il cosiddetto «time differential attack», un’infinita varietà nei modi e nei tempi di attacco (a varie velocità, in modo da disorientare muro e difesa avversari).

In quegli anni, la concezione di Matsudaira viene estesa a tutto il movimento, e il team femminile (in panchina altri coach storici come il «diavolo» Hirofumi Daimatsu- geniale artefice dell’oro ’64 col decisivo apporto del «fisiologo» Hiroshi Toyoda - o come, più tardi, Shigeo Yamada) vince addirittura, come sì è visto, più di quella maschile. Del resto, è proprio quella concezione a permettere ad atleti e atlete normodotati di sconfiggere nazionali più fisiche e potenti, travolte da quell’inedito rapporto tra tecnica e velocità/varietà di soluzioni, di leggerezza quasi «mozartiana». Oggi, le innovazioni introdotte da quella scuola sono patrimonio acquisito di tutti i team, o almeno di tanti. Eppure, anche se le Nazionali giapponesi, dopo quel ciclo, non hanno vinto quasi più niente (unici acuti - femminili - un bronzo Mondiale 2010 e un secondo posto Grand Prix 2014), l’«onda lunga» di quella rivoluzione prosegue.

Questo per dire che l’Italia di Mazzanti dovrà guardarsi, nel Giappone - proprio da quel rapporto varietà/velocità degli attacchi e dal senso orchestrale di «amalgama» del team. Cioè dovrà da un lato saper «leggere» in anticipo quegli attacchi per poter murare o sporcare le giocate avversarie; dall’altro prepararsi anche a scambi prolungati, a sequenze di «braccio di ferro» con difese a oltranza (da prevenire, se possibile, con attacchi e contrattacchi a loro volta veloci e variati, approfittando della loro statura). E se è vero che il Giappone è un po’ impoverito da recenti defezioni (la forte - e sensuale - schiacciatrice Saori Sakoda si è ritirata lo scorso anno ad appena 29 anni), in panchina è arrivata una leader carismatica (anche lei seducente, infatti ex-modella) come Kumi Nakada, unica coach-donna ad alto livello insieme alla leggendaria c.t. cinese Jimmy Lang Ping.

Top-player fino al ’93- nonostante invalidanti infortuni alle ginocchia -, Nakada è stata bronzo olimpico ’84 (ultimo acuto delle generazioni plasmate direttamente da Matsudaira, Daimatsu e Yamada) e ha portato i suoi tratti psico-caratteriali - temperamento esplosivo, competitività feroce, schiettezza estrema dentro e fuori dal campo - in un gruppo che sembra aver ritrovato l’eclissato slancio agonistico. Il tutto integrato dal coaching tattico-strategico del turco Ferhat Akbas, già assistente di Lang Ping e del nostro Giovanni Guidetti. Su tutto, Nakada ha lavorato proprio sul recupero integrale del senso «orchestrale» della squadra. Prova ne sia che scorrendo gli score delle top player del torneo (attacchi, muri, battute) non figura nessuna atleta nipponica.

Attenzione, quindi, ovviamente alle loro individualità: alla distribuzione variata e al timing di Kamami Tashiro per l’opposto Nagaoka (da quest’anno a Conegliano), per la giovane schiacciatrice Kogala e per le centrali Araki o Okomura (primi tempi veloci come il supertreno Shinkansen, che ha portato le azzurre a Nagoya); o alla difesa estrema di liberi irriducibili come Kobata e soprattutto Inoue. Ma attenzione, ora e sempre, alla resistenza-resilienza di un gruppo che ha finora fatto pochi exploit (un 3-2 al Brasile, mente il 3-0 alla Serbia era contro la squadra B), ma ha perso poco e di misura (solo con l’Olanda e con lo stesso Brasile, tutte e due le volte 2-3, ma la seconda - ribaltata dopo aver avuto il mach point- a qualifica acquisita). Ultima variabile: il pubblico. Finora, le azzurre hanno giocato in palazzetti vuoti e freddi come il marmo (presenza media 900 spettatori); stavolta avranno i boati contro, in un Paese che vorrebbe finalmente andare avanti in un Mondiale, stanco di limitarsi a organizzarlo (4 delle ultime 6 edizioni femminili, unica medaglia il citato bronzo nel 2010).

Serbia

A differenza di quello giapponese, il pedigree serbo è molto più recente. A lungo, gli atleti e le atlete della Serbia sono stati/e bacino di prelievo dell’ex-Jugoslavia: un team che a livello femminile - a differenza che nel maschile - non ha però ottenuto risultati, unico nell’Est socialista: solo un bronzo europeo nel ’51, nulla rispetto allo strapotere dell’Urss e alle medaglie non solo di Polonia e Cecoslovacchia, ma persino di Ungheria e Bulgaria. Dopo lo sgretolarsi della Jugoslavia (1990, anche se - com’è noto - il conflitto andrà avanti per un altro decennio), il volley femminile di queste regioni vede l’emergere iniziale della Croazia, con tre agenti europei (’95-’97-’99).

Col nuovo millennio (e con la pacificazione definitiva nel 2003) scatta il momento o meglio il crescendo della Serbia: se i picchi sono agli Europei (gli ori 2011 e 2017, cui si aggiungono l’argento 2007 e il bronzo 2015), non minor peso hanno il bronzo Mondiale 2006 e soprattutto l’argento olimpico a Rio 2016, perso contro la Cina (nello stesso anno, un secondo posto in Coppa del mondo). Come si vede, a colpire è il trend recente (argento olimpico e oro europeo). In effetti, la Serbia - con l’Olanda- è l’outsider più insidioso. A guidala è Zoran Terzic, tecnico giramondo (è partito come secondo di Drago Nesic all’Imt di Belgrado e poi ha allenato in Russia, Turchia e Italia), che riesce a ottimizzare le straripanti qualità atletiche delle sue giocatrici. In questo, la Serbia è l’antitesi del Giappone, ed è semmai vicina alle cugine slave della Russia.

Il punto-chiave (inutile girarci intorno) è uno: la catena di infortuni. Perché è vero che anche la Serbia è molto forte come ensemble, ma le individualità a rischio sono tante e di primo piano. Si tratta dei due martelli Brankica Mihajlovic (lasciata a riposo per noie al ginocchio operato nei mesi scorsi) e Bojana Milenkovic (giocatrice di Scandicci, infortunata contro Portio Rico). Ma si tratta - soprattutto - di Tijana Boskovic, enfant prodige che già ora - a 21 anni - è nell’élite delle prime al mondo. Nata a Trebigne poco dopo che la città era stata proclamata capoluogo dell’Erzegovina indipendente (e a lungo prima usata come avamposto contro la vicina Dubrovnik), la Boskovic (sorella minore di un’altra pallavolista, Dajana) esordisce appena quattordicenne in Superlega, vincendo due anni dopo l’Europeo under 19 (dov’è eletta Mvp), Ora all’Eczacibasi Istanbul (insieme all’esperta alzatrice connazionale Ognjenovic e alla centrale americana Adams, ex-Conegliano) è il nucleo radiale e il terminale di tutto il gioco serbo: i suoi contributi nei risultati citati del trend recente sono sempre stati decisivi. Nei giorni scorsi, si è parlato di fantomatici e imprecisati «fastidi muscolari», secondo un dettato da vecchia «disinformatia» sovietica.

Vedremo nelle prossime ore. Perché è vero che alla Serbia restano diverse altre frecce all’arco: l’ultimo martello Bianka Busa, le fortissime centrali Rasic e Stevanovic (grandissima a Casalmaggiore con Mazzanti, ora anche lei a Scandicci) e il libero Mina Popovic, altra atleta addestrata dal nostro campionato (Bergamo e ora San Casciano). Ma la presenza o l’assenza di quelle top player (o anche solo di una, specie se è la Boskovic) può presentare due Serbie alternative, proprio come quelle viste finora al Mondiale: quella delle 7 vittorie su 7 iniziali (tutte per 3-0, unico team a fare meglio dell’Italia) e quella delle ultime due partite (battute 0-3 dall’Olanda e 1-3 dal Giappone, col turnover sovrapposto agli infortuni). Affrontare la seconda, sarebbe un vantaggio simile o anche superiore ad aver affrontato la Russia senza la Goncharova: sarebbe più facile non tanto «vendicare gli uomini» (dalla Serbia asfaltati), quanto giocare in modo meno passivo e avvilente. Del resto, non si può nemmeno escludere che almeno alcuni di questi infortuni siano legati a deficit e/o errori di preparazione. Se gli alibi non valgono per noi, non devono valere nemmeno per gli altri.

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