22 febbraio 2019 - 23:04

Calcio, sessismo e snobismo: il pallone è un mondo chiuso che non ammette estranei

Il calcio non pensa che le donne siano incompetenti, pensa che tutti lo siano. Anche tra i maschiacci il giudizio più frequente è «tu non capisci un c… di pallone»

Calcio, sessismo e snobismo: il pallone è un mondo chiuso che non ammette estranei
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Ex azzurro Fulvio Collovati, 50 partite in Nazionale (Ansa)
Ex azzurro Fulvio Collovati, 50 partite in Nazionale (Ansa)

C’è qualcosa nel caso Collovati che vale la pena di essere approfondito. Il calcio non pensa che le donne siano incompetenti, pensa che tutti lo siano. Tra noi maschiacci il giudizio più frequente è «tu non capisci un c… di pallone». E spesso può anche essere vero.

In fondo il calcio è una palla che rotola, va dove vuole, che scienza vuoi costruirci sopra. Questa è la sua forza, è un linguaggio universale che si arruffiana l’individuo. Nessuno può davvero smentirti. Fino a venti anni fa il calcio era uno spettacolo clandestino, lo vedevi solo se andavi allo stadio, cioè poche decine di migliaia contro decine di milioni che rimanevano a casa, non lo vedevano mai.

Eppure se ne discuteva dovunque, era un proverbio che ogni italiano fosse un commissario tecnico. Tutti filosofi e amanti di una cosa sconosciuta, ma nostra, perché replicabile dovunque, in strada, nei cortili, nei prati. In questo continuo mistero si è sentita l’esigenza di coltivare una razza, cioè una discriminazione per mettere ordine: il calcio doveva essenzialmente essere di chi giocava meglio, di chi aveva successo.

In sostanza il calcio spiega se stesso a se stesso e niente ha mai la possibilità di cambiare. È passata l’idea che bisogna aver giocato ad alto livello per allenare, cioè aver fatto un lavoro per poterne fare un altro diverso. Come se solo Foscolo potesse spiegare Foscolo. Come se tutto l’universo non giocasse ogni giorno a calcio. Il «razzismo» sta nel dire, «ma tu giochi peggio».

E allora? Per capire di ippica bisogna essere cavalli? Il calcio crede così profondamente alla sua solitudine da acrobata da averlo messo come regola per entrare alla scuola di Coverciano. Si è giudicati, accreditati di un punteggio, in base a dove si è giocato.

Einstein non avrebbe mai potuto fare l’allenatore perché non aveva mai giocato, «non capiva un c… di pallone», appunto. Non importa se avrebbe potuto in fretta capirne molto e portare infinite differenze come hanno fatto per esempio Sacchi, Mourinho o Sarri. A Coverciano non lo avrebbero fatto entrare. È il principio che è terribile. In sostanza il calcio è fortemente autoreferenziale per rimanere chiuso e difendere i propri privilegi.

Ha sviluppato un linguaggio ormai quasi incomprensibile, si è convinto che l’intelligenza, il saper vivere di un uomo, siano direttamente proporzionali alla qualità del suo piede. È come un immenso mondo di sacerdoti, dove il mistero della loro teologia è il più divulgato e violato del mondo. Ma deve rimanere un mestiere solitario. Altrimenti che faranno i sacerdoti finito il gioco?

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