7 luglio 2018 - 10:33

Mondiali 2018, ecco perché il Brasile è stato eliminato (e perché non è una catastrofe)

Per la quarta volta di fila la Seleção esce dal Mondiale battuta da una squadra europea: un dato che spiega molto del momento del calcio non solo brasiliano ma anche sudamericano. Ma ci sono anche ragioni contingenti: che lasciano più di una speranza

di Tommaso Pellizzari, inviato a Nizhny Novgorod

Il Brasile è stato eliminato, lo sconforto di Neymar (Afp/Vatsayana) Il Brasile è stato eliminato, lo sconforto di Neymar (Afp/Vatsayana)
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Quando la Germania è stata eliminata, ancora nella fase a gironi dei Mondiali di calcio 2018, le feste che ne sono conseguite in Brasile sono state la manifestazione, in versione tropicale, del più tedesco dei sentimenti: la Schadenfreude, cioè il piacere che si prova per le disgrazie altrui, nello specifico la Nazionale che quattro anni prima aveva inferto alla Seleção la sconfitta più umiliante della sua storia (il 7-1 in semifinale del Mondiale 2014 a Belo Horizonte). Ma a questa ragione evidente e superficiale se ne sommava un’altra, in alcuni casi addirittura inconscia: con l’eliminazione, la Germania non avrebbe potuto vincere la sua quinta Coppa del Mondo, raggiungendo così il Brasile al vertice di questa classifica (l’altra Nazionale che poteva farlo, l’Italia, non rappresentava un problema per le note ragioni).

Cinquine

Nella vicenda dell’eliminazione del Brasile da Russia 2018 (sconfitto 2-1 dal Belgio nel quarto di finale giocato a Kazan), il numero 5 ha un ruolo e un significato determinante: in negativo e in positivo. Cinque sono i Mondiali vinti dal Brasile (1958, 1962, 1970, 1994 e 2002), un unicum che è una delle ragioni di orgoglio nazionale riassunto nella parola «Pentacampeão» che viene ripetuta il più possibile quando si parla della Nazionale. Il problema è che, più passa il tempo, più quella ragione di orgoglio rischia di diventare un’ossessione. Se il Brasile non vincerà il Mondiale del 2022 in Qatar, saranno cinque edizioni di fila senza successo. Il che, prima di partire con analisi catastrofiche, va precisato che sarebbe tutt’altro che una novità. Il primo titolo arriva infatti dopo gli insuccessi nelle prime 5 edizioni (1930, 1934, 1938, il drammatico 1950 casalingo e poi ancora 1954). Lo stesso succederà con la «Tetra» (la quarta) del 1994, arrivata dopo un digiuno che comincia dopo la vittoria del 1970 e si conclude in Corea e Giappone passando per i grigi Mondiali del ’74 e ’78, il secondo grande dramma (il 1982 contro l’Italia), il 1986 e il ’90.

Fenomeni concomitanti

Quindi, niente di nuovo sotto il sole dei Tropici e dell’Equatore. Solo che, stavolta, potrebbe esserci qualcosa di diverso. Per esempio alcuni fenomeni concomitanti. Il primo dice che in questi ultimi quattro Mondiali persi, il Brasile è stato eliminato sempre da squadre europee: Francia nel 2006, Olanda nel 2010, Germania nel 2014, Belgio nel 2018 e sempre prendendo almeno un gol su calcio da fermo. A questo si incrocia un secondo fenomeno: essendo rimaste in corsa a Russia 2018 solo squadre europee, per la quarta volta di fila la Coppa del Mondo sarà sicuramente vinta da una squadra del Vecchio continente. E c’è una terza cosa: a parte l’Argentina quattro anni fa, le altre sette finaliste dal 2006 a oggi sono state e saranno tutte di collocazione europea.

Squilibri

Non c’è nulla di eterno nel mondo, quindi figuriamoci nel calcio. Però il sospetto è che lo squilibrio economico tra Europa e Sudamerica, già evidente nel calcio per club (basta vedere un albo d’oro recente proprio del Mondiale Fifa tra le squadre che hanno vinto le varie coppe continentali) si stia definitivamente imponendo anche a livello di nazionali. E la tendenza non promette bene: tra il 1993 e il 2011, Argentina e Brasile hanno vinto 8 Mondiali under 20 e 3 Under 17. Ora sono rispettivamente 7 e 15 anni che questo non succede. E, sarà un caso, ma la Nazionale campione in carica in entrambe le categorie è l’Inghilterra (cioè una delle migliori squadre a Russia 2018, indipendentemente da come andrà a finire).

Contesti

È fuori discussione che Brasile, Argentina e Uruguay restino i maggiori produttori di qualità calcistica, ma i loro prodotti sono ormai quasi solo da esportazione: funzionano cioè al meglio in un contesto diverso da quello originario, che i più bravi (siano essi calciatori o allenatori) abbandonano presto per andare a crescere là dove il denaro fa convergere tutti i migliori. E proprio la diversità del contesto spiega perché quasi tutti i calciatori brasiliani, argentini e uruguaiani sembrino (anzi, siano) così più forti nelle loro squadre di club rispetto alla Nazionale.

Il caso Neymar

Neymar è il caso più evidente. Un tweet feroce, subito dopo la sconfitta col Belgio, fotografava il suo Mondiale: «Meno gol (2) che acconciature (3)». Ancora una volta O Ney finisce una Coppa del Mondo accompagnato dai dubbi con i quali l’ha iniziata. Ancora una volta non è riuscito a fare abbastanza differenza. È vero che non ci sono riusciti né Messi né Cristiano Ronaldo, ma la loro carriera fin qui è stata ben diversa. E la loro incidenza nei rispettivi club nettamente superiore a quella di Neymar. È anche vero che il calcio ha una sua crudeltà unica, perché a volte la differenza tra le lacrime e l’estasi ha le dimensioni di un polpastrello. Per esempio quello del portiere belga Courtois. Con la sua parata che resterà nella storia di questo sport nel recupero di Brasile-Belgio, proprio su tiro di Neymar, ha cambiato il segno al torneo della Seleção e dei Diavoli Rossi. Se Courtois non ci fosse arrivato e se si fosse andati ai supplementari, è anche possibile che adeso staremmo parlando di tutt’altro, per esempio di un Brasile protagonista di un secondo tempo mostruoso che aveva ribaltato un Belgio che, nel primo tempo, era stato semplicemente perfetto nella sua spietata bellezza.

Contraddizioni

Perché una delle ragioni per cui non smetteremo mai di guardare il calcio è la sua persistente capacità di mettere in discussione tutti i pilastri della razionalità: tra cui per esempio l’antico principio di non contraddizione, per il quale una cosa non può essere al tempo steso anche il suo contrario. Il quarto di finale di Kazan invece ha detto proprio questo: il Belgio ha meritato eccome di andare in semifinale, ma il Brasile non ha meritato di uscire. Se è successo, è perché oltre alle ragioni di sistema e alle contingenze di cui abbiamo detto fino adesso, ce ne sono altre di medio periodo. Come per esempio la sfortuna o le scelte del c.t. Tite. La sfortuna ha fatto sì che il Brasile abbia dovuto rinunciare al suo laterale difensivo destro Danilo, ritrovandosi costretto all’ultimo a ripiegare su un debuttante anonimo come Fagner. E poi che abbia dovuto affrontare una squadra forte come il Belgio senza Casemiro, l’uomo dell’equilibrio in mezzo al campo (come si è visto nell’azione del secondo gol dei Diavoli rossi).

Errori

Poi ci sono gli errori di Tite. Il primo è stato provare a imitare la scommessa che Enzo Bearzot fece su Paolo Rossi nel 1982. Il c.t. brasiliano ha fatto lo stesso con Gabriel Jesus. E ha perso. Nessun centravanti brasiliano (nemmeno il leggendario Serginho) ha terminato un Mondiale senza aver mai segnato un gol. Certo, non è solo da questi particolari che si giudica un giocatore, che infatti Tite ha sempre difeso sottolineandone l’importanza anche in fase di copertura e recupero palla. Solo che il quotidiano brasiliano Folha de São Paulo ha messo a confronto Gabriel Jesus e la sua riserva Firmino anche sotto questi aspetti, dimostrando che Tite aveva torto. Così come sicuramente ci ha messo troppo tempo a capire dove e perché il Brasile stava soffrendo col Belgio.

La differenza

Poi, però, ha rimediato, con i cambi di giocatori e di modulo che hanno ribaltato i rapporti di forze e quasi anche il risultato. Sembra una consolazione da poco, ma non lo è. Quando il Belgio ha segnato il 2-0, la sua superiorità era tale da far temere una riedizione del 7-1 con la Germania. Se non è successo è perché questo Brasile è una grande squadra, con un allenatore che anche venerdì sera ha dimostrato di essere molto bravo. Tra un 7-1 e un 2-1 la differenza è sempre quella, un 5 che torna, ma senza rappresentare un’ossessione né un incubo. Non è un disonore né un dramma perdere contro Nazionali forti come la Germania del 2014 o questo Belgio, mix perfetto di campioni e consapevolezza tattica. La differenza sta nel come. E infatti, nel dopopartita, non c’è stato uno tra giocatori, giornali e tv brasiliani che non si sia precipitato dire che Tite deve restare sulla panchina della Seleção e continuare il suo lavoro di ricostruzione psicologica calcistica. L’anno prossimo, proprio in Brasile, c’è la Coppa America: la Nazionale verdeoro non la vince dal 2007. Se giocherà come a questi Mondiali, viste le altre nazionali sudamericane avrà buone possibilità di riprendersela: saper capire quando una sconfitta è solo una sconfitta (e non una catastrofe) è il modo migliore per ripartire.

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