17 agosto 2018 - 12:18

Pechino mette in crisi Google (negli Usa). Sundar Pichai: «Non stiamo per lanciare un motore di ricerca in Cina»

L’amministratore delegato di Mountain View ha provato a sedare le proteste dei dipendenti, ma i progetti per espugnare il mercato asiatico sono svariati

di Martina Pennisi

L’ufficio di Google a Pechino (Reuters) L’ufficio di Google a Pechino (Reuters)
shadow

La domanda non è nuova, cambia solo il numero. Diventa mastodontico. Può Google rinunciare a mettere le mani su 770 milioni di internauti cinesi? La risposta è ormai chiara: no. Resta il nodo del come: le voci — riportate da The Intercept e da The Information — di inizio agosto sul lancio di Drangonfly, versione del motore di ricerca di Mountain View adattata alla censura cinese, hanno messo in allarme i dipendenti di Alphabet-Google.

Lo ha riportato il New York Times, entrato in possesso di una lettera circolata all’interno dell’azienda e sottoscritta da 1.400 persone. Il contenuto è simile a quello del documento pubblicato in Rete da Brandon Downey, ex dipendente di Google che aveva partecipato al primo tentativo di incursione nel mercato cinese, poi abortito dal co-fondatore Sergey Brin nel 2010: vengono sollevate «urgenti questioni morali ed etiche» e chiesta maggiore «trasparenza». I googoler — scagliatisi con successo in giugno contro la collaborazione con il Pentagono per i droni —sono preoccupati per la possibile genuflessione del colosso a Pechino, sia per quello che riguarda la censura sia per la condivisione dei dati con il governo cinese, causa scatenante dell’addio di otto anni fa, quando erano stati hackerati gli account Gmail di attivisti cinesi per i diritti umani.

L’attuale amministratore delegato Sundar Pichai è stato abbastanza salomonico, come riportano fonti del Wall Street Journal: l’azienda «non sta per lanciare un prodotto di ricerca nel Paese» ha dichiarato durante un incontro con i dipendenti. Ma si è detto convinto del fatto che «la nostra missione è di organizzare l’informazione del mondo. Se dobbiamo perseguirla bene dobbiamo pensare seriamente a come fare di più in Cina». Brin, decisamente più defilato rispetto a otto anni fa, è entrato nel merito dell’espansione nel Paese asiatico definendola «lenta e complicata» e riconoscendo la necessità di accettare «una serie di compromessi».

Alphabet è presente in Cina con il sistema operativo Android (ma non con Google Play) e con una serie di prodotti, come l’app Files Go per liberare spazio sui dispositivi mobili o il servizio di traduzione Translate. Ha inoltre un centro di intelligenza artificiale a Pechino, un nuovo ufficio a Shenzen e ha investito in società come JD.com. Le partite vere sono però quelle del motore di ricerca, di YouTube e del cloud. Quest’ultimo è particolarmente importante: macina un miliardo di dollari a trimestre e sta aiutando Mountain View a (super)fatturare senza appoggiarsi solo alla discussa pubblicità online. In Cina, dove Amazon e Microsoft sono già attive in questo senso, Google ne sta parlando anche con Tencent. Sarà un processo «lento e complicato». Per dirla alla Brin.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT