«Pornografo? Aretino voleva desacralizzare gli stereotipi del potere»

Cultura

RIMINI. A Roma con Leone X, a Mantova alla corte di Federico Gonzaga, a Venezia accanto ai dogi… Pietro Aretino (1492-1556), figura di spicco del XVI secolo, scrittore perito e innovativo, godette in vita di fama e onori, ma la sua memoria è ancora oggi offuscata dall’etichetta di “pornografo” e dallo stigma della Controriforma.
A rivalutarne il ruolo e il contributo allo sviluppo della civiltà rinascimentale è ora il libro edito da Marsilio L’infame. Storia di Pietro Aretino scritto dal filologo riminese Francesco Sberlati, autore di numerosi libri e articoli e docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna.


Professore, perché la scelta di un’opera su un personaggio come Pietro Aretino detto “l’infame”? È il fascino del “cattivo” ad averla indotta ad occuparsene, o piuttosto la curiosità del filologo?
«In realtà è stata una sfida. Il mio scopo era quello di smentire certi luoghi comuni che per secoli hanno negativamente influenzato l’analisi storica e critica. La sfortuna di Aretino dipese in primo luogo dalla condanna della sua intera produzione avvenuta precocemente già con il primo Indice dei libri proibiti, e poi confermata nell’età successiva al Concilio di Trento. La damnatio memoriae aretiniana corrisponde a un preciso orizzonte ideologico della Controriforma, quando l’intero canone della letteratura italiana fu sottoposto a una considerevole revisione. Basti pensare al Decameron di Boccaccio, che venne “epurato” per ben tre volte negli ultimi trent’anni del Cinquecento, e addirittura riscritto nelle sue parti più licenziose o espressamente anticlericali. Allora come oggi, ciò che si legge è il risultato di una selezione condotta sulla base di criteri sociali e morali ai quali gli autori delle epoche passate erano del tutto disinteressati. Volendo essere un poco provocatori, si può affermare che l’esempio più eloquente è la corrente interpretazione di Dante come “profeta” del Risorgimento e dell’unità nazionale, la quale a rigore è inesatta, giacché fu costruita ad arte da Foscolo e Mazzini durante l’esilio londinese. Le idee politiche di Dante sono chiaramente espresse nel De monarchia, in cui egli auspicava l’impero universale, non certo la formazione degli Stati-nazione, un concetto sorto nell’Ottocento in seguito alla Rivoluzione francese e alla fine dell’Antico Regime».


Crede che la fama dell’Aretino sia meritata o usurpata? Insomma, è stato anche lui vittima di “fake news” e cattiva stampa?
«Aretino è una delle tante vittime di una accezione pedagogica, o meglio pseudopedagogica, della letteratura. Tuttavia, quando componeva, egli non poteva certo immaginare una odierna classe scolastica o universitaria cui indirizzare le sue opere. Al suo tempo, Aretino fu un personaggio di primissimo piano nel contesto non solo intellettuale bensì anche politico. Ebbe per lungo tempo una corrispondenza diretta con Francesco I re di Francia e con Carlo V d’Asburgo, era nelle grazie del Senato della Repubblica di Venezia, e come ho illustrato manteneva persino rapporti con gli uomini più potenti e autorevoli del mondo ottomano, i quali ne apprezzavano la produzione e lo avrebbero voluto presso le loro corti perché in grado di apportare un indubbio prestigio culturale. Per fare comprendere meglio la sua figura agli studenti, faccio spesso un confronto con Ariosto. Vediamo quante pagine nei manuali di storia letteraria sono dedicate ad Ariosto e quante ad Aretino. Oggi tutti conoscono Ariosto e il suo geniale Orlando furioso viene letto nelle scuole e riproposto in tante forme. Però Ariosto per tutta la vita soffrì la condizione di povero letterato cortigiano a servizio presso gli Este, una piccola signoria dell’Italia padana, pagato pochissimo, costretto a mansioni amministrative e burocratiche che egli detestava, sottoposto a costanti angherie da parte del cardinale Ippolito, costretto a indebitarsi per acquistare la carta su cui imprimere l’ultima edizione del suo capolavoro, pubblicata a proprie spese solo un anno prima della sua morte. Aretino invece visse come un pascià grazie alle generose prebende e alle pensioni che gli furono assegnate».


Quanto hanno contribuito nella costruzione di questa pessima fama le sue opere “oscene”? E sono davvero oscene?
«Alcuni sonetti sono davvero indecenti e leggendoli si può ricavare talora un’espressione di disgusto o di imbarazzo. Ma per Aretino anche ciò che noi oggi chiamiamo pornografia era un espediente per una corrosiva polemica politica, finalizzata a desacralizzare certi stereotipi del potere, sia laico sia ecclesiale. Nel mio libro i testi cosiddetti pornografici non sono oggetto di particolare attenzione critica. La pruderie perbenistica non mi interessa: Aretino ha attraversato tutti i generi letterari, in prosa e in poesia, ha scritto commedie di grande successo, le cui scene furono approntate da artisti come Vasari, ed egli fu ispiratore di pittori come Giulio Romano e Tiziano Vecellio, di cui fu amicissimo. Il vero Aretino è questo: l’altro serve solo a fare vendere dei libri tutt’altro che sorvegliati sul piano filologico e documentario. Inoltre nei secoli gli sono state attribuite delle sconcezze che egli non ha mai scritto».


Lei scrive: «Aretino usò con eccessiva coscienza la letteratura e ne fece, abusivamente, uno strumento di pornografia». Che cosa significa?
«Significa che si servì dei registri espressivi desunti da una tradizione illustre per mettere a soqquadro un sistema di auctoritates da cui scaturiva una idea di letteratura che egli considerava troppo paludata e retorica, perlopiù basata sullo schema convenzionale dell’emulazione. La sua è una letteratura di contenuti, non di sole forme, e spesso i contenuti possono essere urticanti, specie quando professano la verità. Nel Cinquecento, da tutta Europa si mandavano ambasciatori a Roma alla curia pontificia per ragioni diplomatiche, e si negoziava tutto il giorno con prelati e cardinali. Poi la sera, per ristorarsi e distrarsi, c’erano le escort, per chi se le poteva permettere, o i ragazzi a seconda delle legittime inclinazioni di gender: Aretino ci dà una descrizione accurata di questa realtà estremamente complessa e controversa, che non possiamo giudicare o valutare con i modelli comportamentali e valoriali sui quali si è compiuta la nostra educazione».


Dal punto di vista letterario invece Pietro Aretino fu uno sperimentatore e un innovatore: in che modo?
«Sì, certamente fu un innovatore. Con lui nasce la moderna prosa italiana, che significa superamento del modello boccaccesco, un modello sublime, inteso a replicare nella lingua volgare lo stile ciceroniano, ma di ardua utilizzazione per dare voce alle più varie istanze della vita umana. I libri di lettere di Aretino hanno contribuito a stabilire una norma grammaticale e anche sintattica che ha avuto ragguardevole importanza per l’evoluzione storica della nostra lingua. Egli non ha voluto codificare (come fece Bembo), bensì sollecitare una pluralità di registri espressivi in grado di descrivere i sentimenti e le passioni di donne e uomini, e che potevano essere utilizzati anche da coloro che non possedevano una educazione umanistica di alto livello. Da questo punto di vista, egli ha dimostrato una concezione autenticamente democratica del sapere, in netta opposizione con l’idea mecenatizia e signorile della letteratura cortigiana».

Il suo volume fornisce un quadro piuttosto esaustivo su un uomo, un artista e il suo tempo, arrivando a considerare l’Aretino un prototipo cinquecentesco di italiano, o se non altro colui che ha «inaugurato un tipico modo di essere italiani». Quale?
«La capacità di adattarsi alle mutazioni del potere, e di fingere una apparente subalternità, salvo poi mantenere una orgogliosa autonomia e indipendenza di pensiero e di azione. Oggi più che mai dovremmo ammirarlo e prenderlo a esempio».

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